La recensione di "Faust", di Leonardo Manzan in scena al Teatro Vascello di Roma fino al 22 dicembre

Recensione a cura di Mario Turco

Dobbiamo bruciare Johann Wolfgang von Goethe? Dopo De Sade, è arrivato il turno di accendere il rogo di uno dei campioni della cultura occidentale più unanimemente riconosciuti dalla nostra piccola e vecchia Europa? La furia generazionale contro la tradizione si è spinta fino al punto di ripudiare perfino uno dei miti più "olimpionici" della sua letteratura? Il fatto più straordinario di questa audace tesi è che questo "gran rifiuto" avviene proprio durante la fine della rappresentazione teatrale "Faust", che per la regia di Leonardo Manzan è in scena al Teatro Vascello di Roma fino al 22 dicembre. 


Produzione La Fabbrica dell’Attore-Teatro Vascello, TPE Teatro Piemonte Europa e LAC Lugano Arte e Cultura, in collaborazione con il Teatro della Toscana-Teatro Nazionale, in appena 100 minuti il testo dello spettacolo scritto dallo stesso giovane regista insieme al sodale Rocco Placidi parte infatti dalla messa in scena del Faust I e II, compendio di 60 anni di febbrile limatura compiuta dall'autore tedesco in cerca di un'immortalità artistica più demoniaca del suo protagonista, per abiurare il suo compito già dal primo minuto. Come dicono infatti le note di regia: "Il nostro Faust ha un problema concreto e insormontabile: vuole mettere in scena il Faust di Goethe. Vuole rappresentare sé stesso. Ma questo non è più possibile". Ecco che la scena, curata da Giuseppe Stellato, si apre infatti da subito su un tavolo "senza inizio e senza fine" da anonima conferenza stampa in cui quattro relatori prendono posto chiedendo al pubblico se ci sono domande. L'argomento è, o dovrebbe essere, il "capolavoro" (ad ogni occorrenza del termine i conferenzieri alzano le braccia, come arrendendosi di fronte alla banalità dell'altezza goethiana) del titolo, a cui però non sembra i protagonisti vogliano concedersi. Tramite la prima di una serie di trovate riuscitissime da teatro dell'assurdo, tra gli oratori comincia infatti una specie di gara di rutti, intervallata da espressioni fàtiche (alcune spinte ad estremi di gustosissimo non-sense come "Se sto zitta mi sentite?" oppure "Si è sentito quello che non si è detto?") e sprazzi di riassunti della sua polimorfica struttura per studenti, perfidamente conditi con un micidiale “Ce l’avete voi a Centocelle le allegorie”? 


Così questo Faust non si schioda nemmeno per un momento – il sipario si apre solo per far entrare il Mefistofele interpretato come un residuato da avanspettacolo dalla bravissima Paola Giannini e, ovviamente, per farlo uscire minaccioso dopo il malinconico finale - dal prologo metateatrale che apre anche il testo originale esaurendosi volutamente proprio in questo continua e abrasiva rinuncia alla sua messa in scena. Con un coraggio demifisticatore davvero lodevole e quasi sempre originale, Manzan si pone oltre Goethe rapendone piuttosto situazioni, personaggi, temi e ricezione per portare sul palco la sua esplosiva cifra teatrale d’artista e di uomo. Una cifra di cui possono riscontrare padri e padrini, certo, perché continuamente e volutamente evocati davanti al sabba delle sue idiosincrasie personali. Che sono in alcuni casi dirompenti – la passione per gli “stacchetti” musicali, la contestualizzazione misogina con cui Goethe tratta la Margherita del dramma, i calviniani esperimenti delle articolazioni del “C’era una volta” e della scena delle idee -, in altri comunque dialoganti con le forme del proprio tempo – il battutismo da stand-up comedy come nella canzone cinica sul suicidio – e in altre solipsistiche fino alla noia – i ben due lirismi tardoadolescenziali sull’amore tormentato che probabilmente lo angustia nella vita vera. Una materia comunque vivissima e sempre imprevedibile per spettatori evidentemente “disabituati al pensiero stravagante” e al gesto estremo, come dimostrato dal sussulto alla craniata sul tavolo dell’attrice Chiara Ferrara. Provocatorio (“A noi il Faust di Giovanni Ortoleva è piaciuto di più”) fino all’aperta rivendicazione che deve essere detto “Maledetto l’artista che crede di migliorare il mondo”, questo Faust non ha sete di conoscenza, non fa patti con nessuno e soprattutto non vende l’anima: la mostra soltanto, e noi gli siamo grati per questo piccolo, imperfetto ma delicato capolavoro. In fondo, l’eternità culturale ha fatto il suo tempo.

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