La recensione di "The happy prince - L'ultimo ritratto di Oscar Wilde", di Rupert Everett. Al cinema dal 12 aprile

Recensione a cura di Mario Turco

Quando scrivi di Oscar Wilde la tentazione di conchiuderlo dentro uno dei suoi cristallizzati aforismi o un motto brillante delle sue commedie è sempre a portata di penna. Se poi vuoi raccontarne anche la vita ancor più forte è il rischio di indugiare sul carattere bohémien dell’artista. Il cinema offre una consolidata tradizione di ritratti a tinte forti/drammatici a cui era facile accostarsi e che potevano cadere,
ulteriore rischio, nel biopic a tinte agiografiche a causa delle note vicende che funestarono gli ultimi anni di vita dello scrittore irlandese. Ed invece “The happy prince - L’ultimo ritratto di Oscar Wilde” (occorre ancora una volta lamentarsi del sottotitolo esplicativo a mo’ di didascalia per spettatori distratti della distribuzione italiana?!) riesce con insospettata maturità a districarsi da queste catene di scrittura. 

Prodotto da Palomar, Maze Pictures, Entre Chien et Loup, il film d’esordio alla regia di Rupert Everett sarà distribuito nelle sale italiane da Vision Distribution a partire dal 12 aprile. La pellicola ripercorre gli ultimi anni della vita di Oscar Wilde, quelli compresi tra la primavera del 1897 e l’autunno del 1900. Anni un po’ dimenticati dalla storiografia ufficiale poiché quelli più esecrabili da un punto di vista biografico dato che vanno dalla scarcerazione dal penitenziario di Reading alla morte, avvenuta a Parigi il 30 novembre del primo anno del XX° secolo in una misera stanza dell’Hotel d’Alsace. Proprio su quest'ultima parte di vita sceglie invece di concentrarsi Rupert Everett, da sempre appassionato estimatore dell’artista dandy, in un “one man show” che lo vede al contempo interprete, sceneggiatore e regista del film. Una dedizione notevole e quasi maniacale ma ripagata da una messa in scena sempre vibrante, mai banale che rimarca ad ogni inquadratura la lunga gestazione protrattasi per quasi dieci anni. In un curioso quanto riuscito transfert la sofferenza produttiva fa il paio con quella di Wilde, dilaniato da un masochismo interno che lo portò ad oltrepassare le già larghe maglie della sua vita costellata di eccessi. 

La maggior parte di noi vive sguazzando nelle fogne, solo che alcuni lo fanno guardando le stelle”: la cifra dell’approccio allo scrittore de “Il ritratto di Dorian Gray” sta proprio in questo poco famoso aforisma che il regista ricorda nell’intervista rilasciata durante la proiezione avvenuta a Roma il 10 Aprile. Sebbene infatti il Wilde di “The happy prince” sia un corruttore sessuale di bambini a cui fa pure assaggiare cocaina, egli rimane, pur nella sua turpitudine morale, un uomo ricolmo di sensibilità aristocratica verso il bello e i suoi simili. Siamo comunque lontani da una partecipazione di sguardo: Rupert Everett non fa sconti a nessuno, né al suo protagonista ripreso continuamente nella sua ostinata caduta né alla società inglese del tempo che si accanì con mefitica ipocrisia sull’omosessualità dell’artista. Giova infatti ricordare che i due anni di carcere gli furono inflitti con l’accusa di sodomia, barbara condanna di cui l’Inghilterra si è scusata soltanto nel 2017. Il film però anche qui riesce ad accennare questa critica senza stentorei strilli di denuncia lasciando alla sensibilità dello spettatore l’accortezza di far inevitabili raffronti coi rigurgiti omofobici che stanno ritornando in auge nella democratica Europa. “The happy prince” si rivela essere una piacevole sorpresa cinematografica che dedica ogni inquadratura della sua pellicola al ritratto al fulmicotone di un uomo più grande della sua epoca, dei suoi simili e perfino di sé stesso, incapace di emendare il suo lato più distruttivo. Un uomo che amava certo gli altri uomini ma quelli sbagliati, sia in vita che in morte e che non seppero dargli il pieno amore i primi, il giusto riconoscimento i secondi. Forse Rupert Everett, a distanza di più di un secolo, riesce nel miracolo di tributargli entrambi.

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