Recensione a cura di Mario Turco
Il caldo, l’afa, la canicola, i consigli sull’idratazione dei vecchi, i migranti respinti da frontiere che esistono solo sulla carta, recuperi cinematografici da parte di case di distribuzione con appena tre anni di ritardo sulla data di produzione: la chiamano estate. Per distrarsi da tutte le seccature e i drammi dei primi componenti di questo elenco bisogna allora concentrarsi sull’ultimo e andare dal 28 giugno nelle (poche) sale italiane che proietteranno “Fotograf”, di Irena Pavlásková. Denso,
densissimo, come uno dei suoi nudi di donna di fronte a una parete color marciume, il biopic sulla vita del celebre fotografo ceco Jan Saudek ne racconta le gesta in oltre due ore di durata che scivolano via senza fatica e con molto interesse. Il merito si può sicuramente ascrivere a un approccio chiarito da subito nello straniante prologo che vede lo stesso artista discutere con il proprio interprete su pellicola, il bravo Karel Roden, in cui si annuncia da subito l’intenzione di non voler apparecchiare una stolida ricostruzione dei fatti ma si avoca la possibilità di ingigantirli o crearne ex-novo a seconda delle esigenze narrative.
Il caldo, l’afa, la canicola, i consigli sull’idratazione dei vecchi, i migranti respinti da frontiere che esistono solo sulla carta, recuperi cinematografici da parte di case di distribuzione con appena tre anni di ritardo sulla data di produzione: la chiamano estate. Per distrarsi da tutte le seccature e i drammi dei primi componenti di questo elenco bisogna allora concentrarsi sull’ultimo e andare dal 28 giugno nelle (poche) sale italiane che proietteranno “Fotograf”, di Irena Pavlásková. Denso,
densissimo, come uno dei suoi nudi di donna di fronte a una parete color marciume, il biopic sulla vita del celebre fotografo ceco Jan Saudek ne racconta le gesta in oltre due ore di durata che scivolano via senza fatica e con molto interesse. Il merito si può sicuramente ascrivere a un approccio chiarito da subito nello straniante prologo che vede lo stesso artista discutere con il proprio interprete su pellicola, il bravo Karel Roden, in cui si annuncia da subito l’intenzione di non voler apparecchiare una stolida ricostruzione dei fatti ma si avoca la possibilità di ingigantirli o crearne ex-novo a seconda delle esigenze narrative.
I fatti insomma servono anche per ingenerare riflessioni sull’importanza dell’arte provocatoria a cui spesso è demandato di fare da apripista sulla rottura di tabù moderni (in questo caso il ruolo del nudo e della bellezza non conformata a taglie 42), sul ruolo dell’artista libertino che corre il rischio di venire divorato dai suoi numerosi amori, sulla differenza tra mediocrità e genio. E la proposizione di questi temi è fatta attraverso la messa in scena di elementi significativi della vita del fotografo ceco a cui, come si scriveva poc’anzi, non è dato facile risalto didascalico quanto piuttosto una ragionata importanza argomentativa. La regista Pavlásková sceglie uno stile filmico che, nonostante le intemperanze caratteriali del protagonista e la possibile deriva scabrosa, si mantiene sempre pacato, senza isterismi hollywoodiani e hipsterismi europei. Forse proprio più che dei corpi senza veli delle corpulente donne amate dall’artista ciò che resta impresso sulla memoria è infatti proprio la loro sessualità sorridente e spontanea, resa innocente dall’approccio dionisiaco di Saudek che sa farla uscir fuori anche da esponenti insospettabili.
La regia accarezza con tenerezza le numerose protagoniste rivelando con ruvida tenerezza i loro chili di troppo, le forme boteriane senza per questo d’altro canto rinunciare, per partito preso, all’armonica flessuosità della protagonista, interpretata da Marie Málková, i cui occhi non si dimenticano facilmente. Per quanto riguarda la vicenda vera e propria l’unico difetto che le si può imputare è che insiste seguendo un climax scontato sulla banale giravolta della segreteria/discepola per arrivare al finale da camera borghese che vede lo scioglimento in tribunale, quasi fosse un legal thriller. Così il dramma sapientemente evitato per un’ora e mezza deflagra improvviso e privo perciò di scarica empatica nel finale, quando ormai in realtà il film s’era diretto verso altre sponde. Peccato, perché al netto di questo sentimentalismo fuori tempo massimo “Fotograf” aveva saputo fotografare (ah, ah!) la figura di un artista a tutto tondo che aveva fatto del disimpegno consapevole, del dubbio perenne e dell’amore masochistico per le donne il fulcro di una poetica straniante ma preziosa.