La recensione del film "La mia vita con John F. Donovan", di Xavier Dolan. Al cinema dal 27 giugno

Recensione a cura di Mario Turco

Una volta etichettato da critica e pubblico come Autore (la maiuscola è grafema obbligato), un regista si può permettere di tutto. Anche di continuare a fare lo stesso film da quasi un decennio arrivando a perdere l'iniziale urgenza narrativa per arrivare a una reiterazione di forme e modi che mantiene tutti i crismi della giovinezza senza più la sua autenticità. La mia vita con John F. Donovan, diretto da Xavier Dolan ed in uscita nelle sale italiane dal 27 Giugno distribuito da Lucky Red è il combinato disposto di ambizione artistica unita alla piaggeria spettatoriale di gente che ha bisogno di sfornare idoli continui.

La cosa divertente di Xavier è che non ha visto moltissimi film. Non gli importa molto di Godard. In realtà una delle pellicole che lo ha ispirato di più per questo film è Titanic”. Prendiamo dal pressbook fornito da LuckyRed quest'affermazione attribuita all'attrice Thandie Newton, interprete della giornalista Audrey, per dare una prima motivazione alla durezza iniziale. Diciamolo: per Dolan è arrivato il momento di non lasciarsi più trasportare dalla naïveté di Les Amours imaginaires (fino a Mommy, a voler essere larghi di manica critica) e mettere in discussione alcune fondamenta del suo cinema, lasciarlo respirare a contatto col mondo permettendogli di instaurare un proficuo dialogo anche con altre modalità di fruizione estetica. E anche i cinefili dovrebbero stare attenti a non gridare subito al miracolo audiovisivo, a capire che un enfant terrible se portato troppo a palmo di mano può restare enfant per tutta la vita e ogni suo film successivo diventare sempre più terrible. Le recensioni dagli Usa che avevano avuto modo di vedere questo primo film hollywoodiano di Dolan al Festival di Toronto del 2018 per prime hanno preso atto di questo ennesimo inabissamento nello stereotipo da parte del regista canadese. La mia vita con John F. Donovan ha avuto una gestazione travagliata, una continua riscrittura in attesa della produzione giusta che si palesa in una levigatezza mai così morbida nella precedente filmografia. Di fronte ad una storia dall'alto potenziale drammatico che giunge però a generare le solite quattro scene madri dolaniane si arrivano a rimpiangere le strilla e gli urli dello slabbrato ma ben più interessante “è solo la fine del mondo”. 

La storia dell'attore televisivo John Donovan e della sua corrispondenza epistolare con un bambino di 6 anni che intende perseguire le sue gesta recitative s'allarga fino a toccare le tematiche queer tanto care, il rapporto con madri problematiche e un malessere esistenziale sottilmente dilaniante. Questa dilatazione di temi non giova alla struttura del racconto che per dare memorabile conto visivo delle tappe in cui si articola si spezzetta in una serie di scene enfatiche da soap-opera. Insomma, si piange e ci si rincorre sotto la pioggia in slow-motion, si canta pezzi fin troppo popolari (“Adam's song”, dei Blink 182 mostra come Dolan faccia ancora affidamento sulle compilation della sua adolescenza), non si accetta confusamente la propria omosessualità come si faceva a 20 anni. Non è nemmeno un ripiegamento ombelicare di un Autore lontano dalla propria epoca: Dolan crede in questo cinema popolare e non si fa sfiorare da nessun dubbio creativo. Così facendo sforna un totem buono (forse) per le rassegne LGBT ma che agli spettatori esteticamente laici non dice nulla. Forse intimorito dal debutto hollywoodiano e da un budget che tocca i 30 milioni di dollari, il film eccede in facili anti-conformisti. Come non alzare le spalle di fronte alla scena in cui il Rupert adulto con uno sproloquio dialogico di rara impotenza concettuale (il cui succo è: in fondo siamo tutti “primo mondo” quindi un'intervista ad una star conta quanto un reportage di guerra) abbatte la diffidenza ostile della giornalista politica del Times che lo sta intervistando controvoglia? E dopo questa vittoria filosofica via di labbra arricciate, faccette e strizzatine d'occhio che non si vedevano dai melodrammi pastello di Douglas Sirk. Troverete in giro sul web altre recensioni negative e il capolavoro di La mia vita con John F. Donovan è quello di riuscire a dar ragione a tutti i suoi detrattori.

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