Recensione: Manfred, di George G. Byron

Titolo: Manfred
Autore: 
George G. Byron
Editore: Marsilio
Pagine: 221
Anno di pubblicazione: 2019
Prezzo copertina: 16,00 €

Recensione a cura di Mario Turco

La recente morte di Harold Bloom è (macabra) occasione per tornare a discutere del suo/nostro Canone Occidentale. Pur non comparendo nella lista stilata dal critico statunitense dei ventisei autori imprescindibili è indubbio che George Gordon Noel Byron, conosciuto col titolo onorifico di Lord Byron, abbia esercitato sin da subito una delle maggiori influenze nella letteratura europea. Crocevia di emozioni contraddittorie già in vita, lo scrittore inglese seppe portare i suoi tormenti biografici su carta donandoci un tipo di protagonista memorabile, il personaggio appunto "byroniano", divenuto presto cantore della potente inquietudine ottocentesca con gemmazioni ansiogene novecentesche e sensi di colpa proto-freudiani. Il massimo rappresentante di queste creature letterarie fu "Manfred", da noi letto in questa elegante edizione Marsilio 2019 nella collana Letteratura Universale, a cura di Diego Saglia e con testo originale a fronte.


Nella prefazione curata da lui stesso Saglia ricorda innanzitutto come l'opera sia scaturita da una delle estati più fatali e creativamente feconde della storia della letteratura, quando sulle rive del lago di Ginevra, a seguito dell'eruzione di un vulcano che li costrinse ad un forzato isolamento, Percy B. Shelley, sua moglie Mary, John W. Polidori e appunto lo stesso Byron in seguito alla sfida di creare un'opera gotica idearono rispettivamente Prometeheus Unbound, Frankestein, The vampire ed in ultimo proprio Manfred. E di questo clima così programmaticamente orrorifico il capolavoro di Byron è percorso in suo ogni verso. Pur essendo un closet drama, scritto cioè più per essere letto nei salotti che per una rappresentazione sul palcoscenico, sono tantissimi gli stilemi figurativi tipici del racconto inteso a generare paura. Già all'inizio, sulle cime delle montagne svizzere, abbozzati in brevi ma riusciti tratteggi, il paesaggio stende le sue aguzze e nere propaggini sull'uomo che solitario vi si erge. L'apparizione dei sette spettri risponde ulteriormente ad un preciso crescendo di potenza soprannaturale inteso ad annichilire il protagonista che li ha incautamente evocati. Ma tutto il dramma sfrutta gli elementi gotici arrivando a far dialogare Manfred con lo spirito dell'amata e perfino con le tre Parche. 


Questa insistita ambientazione oltremondana non fa però da cornice di sottomissione dell'umano al demoniaco. La grandezza dell'opera di Byron sta difatti nell'omonimo protagonista e soprattutto nell'immenso dolore che fa sì egli non cada mai di fronte ad apparizioni che avrebbero atterrito chiunque. Egli, ancor più del goethiano Faust, è un Übermensch, un mago potentissimo in grado di andare “oltre l'uomo” le cui origini misteriose non fanno altro che aumentare la minaccia dei suoi traffici spirituali. Conscio del suo essere argilla manipolata, “metà polvere e metà divino”, Manfred supera arrogantemente i limiti impostigli dalla natura e pretende ed ottiene di colloquiare col principe dei demoni Arimane perché l'unico in grado di pareggiarlo per statuto. La sottigliezza romantica di Byron sta nell'ammantare un ego indubbiamente ipertrofico di suo con l'aura maledetta di chi ha perduto l'unico amore della sua vita a causa della sua dissennatezza. “Abito la mia disperazione – e vivo – e vivo per sempre” è uno dei tanti accenni auto-accusatori del testo, sempre abile nel nascondere il dramma da cui la vicenda ha avuto origine attraverso elegiaci frammenti. Nella splendida invocazione al fantasma di Astarte, richiamata dalla tomba per ottenerne condanna o pentimento, Manfred manifesta lo strazio di un'anima incommensurabilmente logorata dal rimorso. Un uomo così vicino al genio come lo fu lo stesso Byron ma attirato dal più crudele dei despoti, l'errore. Un superuomo che non riesce ad andare oltre la fallacia del sentimento, un saggio la cui sapienza non gli evita di tormentare prima ed uccidere troppo con l'irruenza dell'affetto l'amata il cui rapporto semi-incestuoso (chiari qui i riferimenti all'amore del poeta per la sorellastra Augusta Leigh) sin da subito è percepito come sbagliato. 


La prevedibile progressione narrativa del dramma piuttosto che diminuire la tensione dello scioglimento finale riesce ad ampliarlo proprio grazie alla sua convenzionalità. Liberi come siamo di non doverci concentrare su personaggi secondari o intricati flashback/flashforward la nostra attenzione viene rapita completamente dallo struggente protagonista che a sé reclama solo l'oblio. Ed esso, agognato per l'intera durata del dramma, alla fine calerà come un tetro mantello su Manfred che finalmente potrà, come i rinnegati suoi simili, accorgersi che in fondo “Vecchio! Non è così difficile morire”.

L'AUTORE
George G. Byron, sesto Barone di Rochdale (1788-1824), è una delle icone cruciali della cultura occidentale dall’Ottocento a oggi. Giunse al successo nel 1812 quando, di ritorno dall’avventuroso tour dalla Penisola Iberica al Mediterraneo orientale, pubblicò i primi due canti di Childe Harold’s Pilgrimage. L’opera fece di lui il più noto e idolatrato poeta dell’epoca, inaugurando il modello dell’eroe byroniano, fascinoso e tormentato capostipite di tante figure successive. Nel 1816, lo scandalo seguito alla separazione dalla moglie Annabella lo spinse a partire per un esilio che lo portò fino in Italia, dopo un breve soggiorno in Svizzera, dove ebbe origine il dramma Manfred, che segna anche il passaggio del poeta verso le composizioni satiriche della fase italiana (Don Juan e Beppo). Percorso da richiami biografici e da complessi rimandi intertestuali – dalla Bibbia a Shakespeare, da Milton a Goethe –, Manfred conferma il fascino duraturo della leggenda di Byron, così come il potere di un linguaggio poetico capace di evocare atmosfere perturbanti e interrogativi profondi.

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