La recensione del film "In prima linea", di Hélène Fillières

Recensione a cura di Mario Turco

Negli ultimi anni la qualità del cinema francese è stata mediamente più alta della nostra. Fatta eccezione per le eccellenze nostrane, che non fanno testo proprio per via della propria unicità, la nostra industria arranca rispetto a quella transalpina sia per quantità che per qualità produttiva. Un film come “In prima linea” (in originale, Volontaire), di Hélène Fillières invece ci riscatta da questa subalternità dimostrando come la componente artistica sia ancora fondamentale per la riuscita di un prodotto audiovisuale. Prodotto da Albertine Production ed uscito in Francia nel 2018, da noi “In prima linea” sarà invece disponibile solo in streaming a partire dal 15 giugno 2020, distribuito da Cloud 9 Film, su Sky Primafila, TIMVision, Apple TV, Google Play, CG Digital, Rakuten TV, Chili, Infinity TV e The Film Club. Insomma, tante occasioni per mancarlo, se volessimo fare dell'ironia. Ed invece la visione del film è consigliata per una riflessione generale sul cinema dei nostri cugini che quando fa leva sulla propria forza fallisce inesorabilmente.


A prima vista l'attrice e regista Hélène Fillières per il suo secondo film ha un buon soggetto tra le mani: la storia della protagonista Laure che inopinatamente si arruola in Marina e decide di iscriversi ad un corso fino a quel momento riservato a soli uomini sembrerebbe poter toccare sia le corde del femminismo che quelle del riscatto personale. Girato alla School of Fusiliers Marins di Lorient e alla Naval School di Brest, “In prima linea” cerca di essere innanzitutto molto preciso riguardo il contesto dato che s'è avvalso in sede di scrittura perfino dell'aiuto di un consigliere militare. Ma purtroppo una volta espunta la sempiterna fascinazione per divise e gradi rimane il bozzettismo con cui sono presentati i personaggi. Della protagonista, ad esempio, nonostante la riuscita performance attoriale di Diane Rouxel non comprendiamo mai le motivazioni della sua indecisione esistenziale. Due master universitari prima di provare ad entrare in esercito, una madre borghese ed ingombrante attrice (una Josiane Balasko che semplicemente mette in scena sé stessa) e una libertà sessuale esplorata con frequenti nudi rimangono spunti isolati, non dialoganti tra loro perché depotenziati dalla freddezza in cui la regista sceglie di raggelare il suo film. “In prima linea” rimane quindi prigioniero del suo stile, confondendo la pacatezza di toni col grigiore. Non bastano la bella fotografia di Eric Dumont e lo splendido sorriso del luogotenente Baer a rischiararlo dalla tenuità. 


La migliore esemplificazione dello spreco potenziale del film è la scena in cui viene usata la canzone di Nick Cave “Into my arms”. Fillières s'accontenta di averne ottenuto i diritti e la incastra superficialmente durante il viaggio di ritorno, venato dalla luce del tramonto, dei due protagonisti da una parata. Anche qui non c'è costruzione drammatica né tensione: la canzone è solo una didascalia fin troppo chiara della nascente tensione amorosa tra i due. Ed è proprio il flirt mai esplicitato tra “Il monaco” interpretato dal fascinoso Lambert Wilson e la “Miss” a schiacciare il film verso inesplicabili derive da romanzetto rosa. La guerra di sguardi silenziosi, le frasi lasciate cadere a metà, i frammenti biografici monchi (l'aneddoto in Afghanistan) mal s'amalgamano con una seconda parte incentrata sul duro addestramento fisico di Laure. Il legame amoroso al centro della trama è insomma così artificiale da riflettersi su tutto il resto. D'altronde anche la testardaggine dell'esile ventitreenne, “un metro e 63 per 48 chili” e la sua mancata sorellanza con le poche altre ragazze presenti in Marina riflettono la costruzione vetero-progressista del messaggio che vogliono trasmettere. “In prima linea” è quindi un prodotto interessante proprio in virtù del suo fallimento produttivo: come sanno tutti i contadini anche il terreno migliore se innaffiato con troppa acqua e troppo sole non da frutti.

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