Recensione a cura di Mario Turco
“Supremacy – La razza eletta” è basato su una storia vera, sceneggiatura e rimasticata da Eric J. Adams che suona quasi paradossale vista oggi: l'omicidio di un poliziotto di colore da parte di un suprematista bianco appena uscito di galera. Perché è vero che in Usa le forze dell'ordine hanno una criminale tendenza ad abusare del loro potere contro le minoranze ma è ancor più vero che uno dei più grossi problemi che gli Stati Uniti si portano dietro sin dalla loro nascita è la mai rispettata uguaglianza tra il crogiolo di popoli che li forma. Il film di Deon Taylor maschera il politicismo della storia raccontata attraverso una narrazione di genere. Tully (Joe Anderson) è un suprematista bianco appena rilasciato dal carcere della California Pelican Bay dopo aver scontato 15 anni per rapina a mano armata. Con una svastica sulla guancia, croci celtiche sulla schiena e l'odio nel suo cuore, l'uomo viene raccolto dalla “groupie dei suprematisti ariani” Doreen (Dawn Olivieri), per ricominciare da subito a perpetrare i loschi affari della sua congrega. Prima che a malapena vengano liquidati i titoli di coda egli rapina un negozio e spara, uccidendolo, ad un agente di polizia nero che aveva la sola colpa di essere troppo zelante. Braccati dai colleghi dell'uomo ammazzato ai due balordi non resta che rifugiarsi in una delle case vicino cercando di contattare Solecki, il capo della Fratellanza Ariana. Solo che si sa, il destino ha un acre senso dell'umorismo, perché nella dimora abita una famiglia di afroamericani, capeggiati dal vecchio signor Walker (il doppiaggio italiano fa una confusione terribile con i pronomi con cui egli viene chiamato dai figli della sua convivente).
La forzata coabitazione notturna tra il razzista Tully e il nucleo familiare è dapprima spinta dal regista verso l'unilateralità del tossico dispiegamento dell'ideologia del suprematista bianco. Puntando loro continuamente una pistola in testa l'uomo appena uscito di prigione ha buon gioco nel credere realizzati tutti i suoi stereotipi: il figlio non lavora perché è ozioso, il padre biologico non c'è perché ucciso in una rissa da strada, la galera è un passo obbligato nella vita di ogni gansta che si rispetti. Ed invece i Walker si rivelano ben presto una famiglia media con problemi relazionali ma senza le stigma loro attribuite. “Supremacy – La razza eletta”, finge quindi di prendere la strada del crime-thriller e perfino dell'home invasion per mettere in scena la solita convenzionalità dell'ignoranza. A Tully, che ha addirittura ascendenze mistiche (rifiuta il sesso per mantenersi dedito alla causa), basta appena scontrarsi con un-ex-detenuto nero che ha però capito lo sbaglio commesso, per mettere in discussione tutto quello in cui ha creduto. Nel film la figura chiave è proprio quella del signor Walker, interpretato da un monumentale Danny Glover che ha il merito di levigare con un'interpretazione in sottrazione i meriti che la sceneggiatura gli appiccica in modo un po' troppo superomistico. Il finale di un film che eccede nella parte preparatoria e non ha il coraggio di scavare fino in fondo nel marcio della società statunitense ne riscatta però l'andamento altalenante con uno dei più clamorosi ribaltamenti dialogici della Hollywood degli ultimi vent'anni. Così l'afroamericano Walker si rivolge al bianco Tully: - “Un negro, si riduce sempre a questo: pigro, ignorante, che si prende quello che non è suo, fa così il negro, dà sempre la colpa alle sue condizioni come scusa per prendersi quello gli sia dovuto, quel negro. Già quel negro, lui non pensa mai al futuro, al domani, all'oggi, pensa solo alle sue esigue conquiste, subdole e sudicie quel negro, sì quel negro. Ora, c'è solo un negro in questa stanza, in questa casa. E quel negro sei soltanto tu”.