La recensione di "Titane", il nuovo film di Julia Ducournau. Nelle sale dal 1 ottobre

Recensione a cura di Mario Turco

La polisemia delle storie, di prosa o di poesia, è antica quanto l'uni/verso, specie quando raccontano il di/verso. A noi che le guardiamo tutte, sia quelle senza sfumature di senso che quelle con fumisterie senza senso, per cominciare la recensione di "Titane", di Julia Ducournau nelle sale dal 01 Ottobre ed in anteprima da giorno 21 Settembre al Cinema Troisi di Roma distribuito da IWonder, piace cominciare contrapponendo due famosi sunti dell'opera in questione che rendono plasticamente quanto vischiosa sia qualunque interpretazione. 


Quando il film fu presentato a Cannes - dove ha vinto la Palma d'oro - sul sito della Croisette la storia era presentata succintamente così: "un padre che, dopo una serie di crimini senza spiegazione, si riunisce con il figlio che era sparito per dieci anni". Spike Lee invece, presidente della giuria che l'ha premiato con una gaffe divenuta subito iconica, si era espresso in maniera ben diversa: "Ho visto moltissimi film, ma questo è il primo in cui una Cadillac mette incinta una donna". Cosa racconta quindi precisamente Titane, secondo film della giovane regista francese Julia Ducournau dopo l'apprezzato "Raw - Una cruda verità"? Scorazza follemente verso i territori della nuova carne cronenberghiana, come troppo pigramente hanno scritto tanto critici, o guida senza scossoni sulle strade delle solitudini urbane, sebbene alienanti? E soprattutto perché l'opera si apre a questa pluralità di visioni? Lo spiega benissimo la stessa regista in una delle interviste rilasciate ai quotidiani nazionali durante il tour di presentazione che sta compiendo in varie città italiane: "Uso i codici e la grammatica del body horror, ma non credo connoti il mio cinema. Quello che mi sta a cuore è raccontare la trasformazione, non solo fisica, dei personaggi". In Titane Alexia (una meravigliosa ma poco sorprendente Agathe Rousselle) ha un incidente stradale causato dal padre, a seguito del quale le viene messa una placca di titanio nella testa in una scena particolarmente dura da digerire. Questa aggressiva dichiarazione d'intenti viene ulteriormente esplicata mettendo "alla guida" dell'auto il regista francese Bertrand Bonello che interpreta il padre atono di Alex. Una doppia allegoria che farà da apripista ad una lunga sequela di metafore sempre più roboanti e, scusate un altro ovvio gioco di parole, rombanti. Soprattutto nella prima parte, la voglia di colpire pancia ed occhio dello spettatore danno vita ad un ampolloso quarto d'ora hardcore, tra suggestioni cyberpunk centrate sul rapporto sessuale uomo-macchina non pienamente sviluppate (il famoso atto carnale tra la Cadillac e Alexa è mostrato con una grammatica cinematografica ritmicamente banale perché aveva probabilmente paura di cadere nel ridicolo) e la cruenta mattanza compiuta dalla ragazza nella casa sulle note di “Nessuno mi può giudicare” di Caterina Caselli (forse la nota più debole di tutto il film a causa di una crudezza visiva derivata dalla new wave horror francese). 


Dopo questo inizio quasi insostenibile, in cui Ducournau mostra comunque la sua padronanza nell'attivazione di shock percettivi, il film con l'ingresso del secondo protagonista del film, il capo dei pompieri interpretato da Vincent London, alza il piede dal pedale dell'extreme per incanalarsi in una più comoda dimensione da cinema indie. L'ex-stripper Alexia trova nell'inconsolabile Vincent la figura paterna di cui sempre abbisognava e sostituendosi ad Adriene, il suo figlio scomparso da dieci anni, compie una mutazione non meno significativa di quella a cui la gravidanza meccanica sta costringendo il suo corpo sempre più martoriato da devastanti innesti metallici (olio di motore al posto del latte, pancia attraversata da sinistri bagliori di lamiera). Anche per quanto riguarda questi evidenti influssi gender e queer, Titane ha il pregio di riuscire a disallinearsi dai codici e dalle aspettative del genere pur aderendo ai suoi canoni costitutivi. Ma a differenza del più compatto Raw, in questo secondo film l'ambizione della regista (le musiche sacrali che sottolineano alcune efferatezze e l'inevitabile parto del finale) paga pegno all'affezione troppo esplicita verso i personaggi. Così il body-horror e l'antefatto alla Tsukamoto sembrano solo spunti narrativi per raccontare quella che in fondo rimane una storia d'amore e l'evidente bisogno che ne abbiamo tutti. Perfino un'assassina seriale che copula con un'automobile e lecca la bava spastica del ragazzo appena ucciso con un fermaglio per capelli.

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