La recensione de "Con il vostro irridente silenzio", di Fabrizio Gifuni in scena al teatro Vascello fino al 13 Marzo
Recensione a cura di Mario Turco
In “Con il vostro irridente silenzio”, al Teatro Vascello dall’8 al 13 marzo 2022, da Fabrizio Gifuni scritto (insieme a Francesco Maria Biscione e Miguel Gotor per la consulenza storica), diretto e interpretato che riporta in teatro questo spettacolo acclamato da pubblico e critica sin dall'esordio nel 2019 al Salone del Libro di Torino. L'attore romano, in mezzo a questa messe di libri, film, documentari e speciali così vasta da scadere nella congerie acritica, tenta una riflessione inedita portando sul palco le lettere e il memoriale redatte dallo statista durante la lunga coercizione “nella prigione del popolo” prima di essere giudicato e condannato da un tribunale che, come ricorda subito lo stesso Gifuni nel preambolo della pièce, si pasceva senza reale e vera cognizione di agire a nome dei proletari oppressi. “Con il vostro irridente silenzio” si apre quindi proprio con l'ingresso silenzioso dell'interprete che, situatosi appena fuori da un palco delimitato da brogliacci e carte varie in cui al centro campeggia misteriosa una scrivania fiocamente illuminata, fa il punto sul contesto storico su cui è incentrato il successivo reading (ci torneremo). È un riassunto che, al netto di qualche inevitabile superficialità e di qualche evitabile grossolanità politica (nessun cenno alle trentennali politiche reazionarie della DC di cui Moro era Presidente al momento del rapimento, né tanto meno alla sua carriera condotta sotto l'egida del cattolicesimo più vieto), compie bene il necessario lavoro di preparazione spettatoriale sia perché rinfresca alle menti più giovani il quadro di quella decade sia perché anticipa alcuni temi che nella successiva lettura, priva di qualsiasi pausa drammaturgica, il pubblico dovrà autonomamente e velocemente compiere da sé. Dopo questa introduzione infatti, Gifuni abbandona l'eloquio dimesso ed affabile che aveva tenuto fino a quel momento e compie, sulla scia della famosa seduta spiritica tenutasi durante il rapimento in cui vari esponenti politici tentarono di mettersi in contatto col Presidente della DC per vie soprannaturali, una specie di fantasmatica performance di lettura. Ecco infatti che l'attore, con qualche piccolo ma preciso gesto invasato, entra sul palco e tingendosi il ciuffo di capelli sul davanti con una manciata di gesso posato innanzi, “diventa” Aldo Moro.
Dopo averlo già interpretato nel film di Marco Tullio Giordana “Romanzo di una strage”, Gifuni torna a prendere i suoi panni ma pur senza l'aiuto di trucco e costumi questa volta la mimesi è ancora più potente e disturbante. La lettura delle sue carte – non solo i 50 fogli trovati la prima volta dai poliziotti in una perquisizione in cui, secondo il loro verbale, non “era stato tralasciato un mattone” ma anche i 419 ritrovati durante la ristrutturazione dello stesso appartamento fatta dai proprietari nei primi anni Novanta – è fatta assumendo i toni, le pause e le inflessioni dialettali dello statista, come a voler dare vita a quelle parole che erano state derubricate come il delirio di un carcerato ai tempi della loro pubblicazione. Come scrive infatti lo stesso Moro, in un passo che Gifuni rende straziante senza bisogno di calcare l'intonazione ma con lievi e percettibili sfumature della voce sapientemente spezzata: “È vero: io sono prigioniero e non sono in uno stato d’animo lieto. Ma non ho subito nessuna coercizione, non sono drogato, scrivo con il mio stile per brutto che sia, ho la mia solita calligrafia. Perché non mi credete? Chi vi suggerisce di non credermi? Amici, non vi lasciate ingannare. Vi supplico in nome di Dio”. Senza mai una pausa, nemmeno per bagnarsi le labbra, l'attore durante due ore dense di spettacolo legge i passi più significativi degli appelli rivolti da Moro ai suoi compagni di partito, dall'opportunista Zaccagnini allo spregiudicato Cossiga, fino alle dolenti note familiari in cui traspare perfino un certo rimpianto per un'asprezza di carattere che aveva successo in Parlamento ma non dentro le mura di casa. “Con il vostro irridente silenzio” diventa allora un postumo j'accuse del più celebre dei condannati a morte italiani del secondo dopoguerra, capace di fulminanti rivelazioni – la matrice nera della strage di Piazza Fontana ben prima della storia processuale che solo dopo decenni ha sancito il coinvolgimento di Ordine Nuovo – ed altrettanto epifaniche condanne morali verso una classe dirigente che sulla scia di una malintesa durezza istituzionale aveva scelto di non scendere a patti coi brigatisti decretando la fine del loro più illustre rappresentante. L'acme dello spettacolo è infatti l'oramai celebre reprimenda fatta nel Memoriale verso Giulio Andreotti, neo-eletto Presidente del Consiglio e fautore della linea dura: “Che significava in presenza di tutto questo il dolore insanabile di una vecchia sposa, lo sfascio di una famiglia, la reazione, una volta passate le elezioni, irresistibile della D.C.? Che significava tutto questo per Andreotti, una volta conquistato il potere per fare il male come sempre ha fatto il male nella sua vita? Tutto questo non significava niente. Bastava che Berlinguer stesse al gioco con incredibile leggerezza”.