La recensione de "La dodicesima notte", di William Shakespeare per la regia di Loredana Scaramella, in scena al Teatro Olimpico di Roma fino al 31 Ottobre
Recensione a cura di Mario Turco
Ecco allora che “La dodicesima notte”, adattato da Loredana Scaramella ed in scena al Teatro Olimpico di Roma fino al 31 Ottobre, è la perfetta espressione stilistica/narrativa della ricchezza dell’intero patrimonio shakespeariano, capace anche nei suoi esiti meno culturalmente famosi di porsi al crocevia di qualunque riflessione estetica incentrata sul presente. Proseguendo la fortunata collaborazione con il Gigi Proietti Globe Theatre, la pièce è una produzione della Politeama S.R.L. che, oltre a continuare a portare le opere del Bardo al pubblico odierno attualizzandone linguaggio e perfino contenuti, si permette il lusso di una sperimentazione musicale che permea la struttura reclamando perfino spazio in un paio di svolte tramiche. Ecco infatti che “La dodicesima notte” flirta continuamente con gli stilemi del musical rock alla The Rocky Horror Picture Show a partire dagli accessori in pelle, i visi bistrati, gli spolverini, le borchie e i cappotti di pelo di alcuni personaggi fino ad arrivare alla musica di Mimosa Campironi eseguita dal vivo soprappalco dal Quartetto William Kemp. Già il riff di chitarra iniziale, a cui si aggiunge subito una più classica ballad eseguita col violoncello ed accompagnata dall’angelica voce dell’attore Antonio Sapio che annuncia l’inizio delle movimentate vicende smonta però il rischio di un’eccessiva riscrittura: in fondo, non c’è ancora nulla di più rock delle parole di William Shakespeare, sembra volerci dire la regista col suo allestimento. L’adattamento infatti non si fa irretire da queste voluttà modernistiche lasciando l’elaborato canovaccio quasi intonso e libero da quelle che in altre mani avrebbero potuto rivelarsi pastoie musicali.
Le poche canzoni nelle due ore e dieci minuti di durata riescono così a funzionare ottimamente sia come fuga dalle tensioni delle parti più contorte (l’amore incrociato e non corrisposto tra i quattro protagonisti) che come esplosione rock di quelle più apertamente divertenti. “La dodicesima notte” è una delle più belle e riuscite “carnelavate” dell’autore inglese, in cui l’impasto di ribalde situazioni e sempre argutissimi dialoghi si mescola in maniera fluida - ed il riferimento è ovviamente al gender equivoco ed equivocato dei fratelli Viola e Fabian – alle pene d’amore, alla vendetta e soprattutto alla lucidissima follia del giullare Feste (l’inossidabile Carlo Ragone, sempre perfetto quando c’è da interpretare il fool) che sa di mentire quando afferma: “Non c’è malizia in un matto di professione anche quando offende”. I sillogismi di cui si fa continuo latore, oltre ad avere una perfetta struttura filosofica (e confermare, ove ce ne fosse bisogno, il legame tra il genio inglese ed Aristotele) hanno il pregio di cercare sempre illogiche e irrazionali premesse per portarle logicamente a razionali e logiche conclusioni di stampo anti-moralistico. E non è un caso che a subire maggiormente la sordida beffa orchestrata tra gli altri dal matto di mestiere e dal folle reso tale dal vino, lo zio Ser Tobia De’ Rutti (un Mauro Santopietro che esacerba l’ebbrezza del personaggio con la sua irrefrenabile giovinezza) sia proprio il puritano Malvolio (un Antonio Tintis che di puro mestiere teatrale e senza mezzucci comici nella celebre scena delle giarrettiere strappa al pubblico grasse risate declamando a gran voce: “Può esserci del nero nei miei pensieri ma c’è del giallo nelle mie calze”), reo di aver creduto alla falsa lettera dell’innamorata Olivia solo perché era verosimile ai suoi occhi di arrampicatore sociale. In mezzo al gran bailamme di equivoci de “La dodicesima notte”, portato in scena con affiatamento da una gran compagnia e da un’ancor più brava regista, l’unico vero fraintendimento è proprio questo: soltanto chi crede al tutto della vita, come i matti e gli avvinazzati, non crede al niente della bugia.