La recensione di "Tre sorelle", di Anton Čechov per la regia di Claudia Sorace, in scena al Teatro India di Roma fino al 15 dicembre

Recensione a cura di Mario Turco

Ogni critico ha le sue fissazioni e ossessioni teoriche a cui riconduce spesso prodotti culturali che a nessun altro verrebbe la briga di accostare per l'eteromorfismo che li contraddistingue. Eppure, mentre assistevamo a "Tre sorelle", di Anton Čechov che per la regia di Claudia Sorace sarà in scena al Teatro India di Roma fino al 15 dicembre, non potevamo fare a meno di pensare a più riprese all'apicale film "Broken rage", di Takeshi Kitano, presentato alla scorsa edizione della Mostra del cinema di Venezia. 


Tanto il lungometraggio del regista giapponese era straordinario nell’intervenire sulle variazioni di un plot che mostrava nella prima parte, tanto questa versione inciampa proprio sulla modulazione semantica del capolavoro dello scrittore russo. Ma cominciamo fornendo qualche ragguaglio tecnico su questa riduzione della penultima opera del drammaturgo, firmata dal duo romano Muta Imago e già premiata proprio alla Biennale di Venezia l'anno scorso. Riccardo Fazi e Claudia Surace firmano infatti una rilettura sperimentale e coraggiosa, astraendo il complesso testo del dramma in una versione di un'ora e un quarto dove le uniche presenze in scena sono proprio le tre sorelle del testo: Olga, la maggiore, docente in un liceo femminile; Maša, la mezzana, sposata in giovanissima età a un uomo che non ama; ed infine Irina, la più piccola. Produzione Index Muta Imago / Teatro di Roma – Teatro Nazionale, in collaborazione con Amat & Teatri di Pesaro per Pesaro 2024. 


Capitale Italiana della Cultura con il sostegno di Festival delle Colline Torinesi TPE / Teatro Piemonte Europa/, questo Tre sorelle ha una linea programmatica nettissima che intende incanalare uno dei testi più importanti del teatro del secolo scorso all'interno della sperimentazione visiva portata avanti da una compagnia teatrale tra le più apprezzate e innovative dell'attuale panorama. Come dice infatti Fazi, uno dei due membri, in un'intervista rilasciata l'anno scorso a margine della presentazione: "In questo lavoro di smembramento e ricomposizione dei quattro atti, abbiamo scritto un testo che parte dal presente delle tre donne, dal presente delle tre attrici, che vengono riattraversate da questi momenti seguendo flussi energetici che sfondano la rete temporale e si muovono anche indietro nel racconto secondo linee di intensità". Il risultato di questo decoupage autoriale è una riscrittura che ripudia la consequenzialità temporale lasciando che fatti, personaggi e dialoghi siano flussi visivi e sonori - musiche originali eseguite dal vivo da una console laterale da Lorenzo Tomio - che attraversano le tre protagoniste. Così ecco che la scena si riempe di globi luminosi, sfere stroboscopiche, lampade e fasci di luci – straordinario il lavoro compiuto da Maria Elena Fusacchia – che illuminano la stanza fisica e quella mentale delle donne rimaste in casa Prozorov, svelandone gli anfratti più nascosti. Il problema principale di questa scelta è che manca la referenza testuale a cui attenersi per cogliere i continui sommovimenti e le epifanie di pensiero proposte. Insomma, a meno di conoscere il materiale di partenza a menadito, Tre sorelle è per larga parte un contenitore sensorialmente profondo ma quasi sempre incomprensibile. La decadenza dei personaggi, il senso cechoviano di smarrimento esistenziale, il dolore mai pacificato e mai pacificabile sono affidati ai celebri leitmotiv (“Qui dentro c’è l’inferno. Qui, qui, qui!” o la febbrile e provincialotta speranza di vedere Mosca) e soprattutto alla precisa coreografia dei movimenti delle interpreti. Certo, il teatro è una fusione di parole e corpo ma qui a schiacciare l’interpretazione è il secondo. In Tre sorelle anche le parole vengono commutate in gesti, diventano estensioni articolari, meccanismi che non vogliono dire quasi nulla ma soltanto agire, fare, disfare, in una dimensione performativa del verbo che finisce per diventare essa stessa un movimento imparato a memoria e da portare soltanto a termine. Come se non ci fosse più fiducia nella narrazione ma soltanto nello scavo psicologico frammentato, a favore di una scomposizione cerebrale che però da essa continua a prendere le mosse senza sapersene astrarre davvero. Così questo Tre sorelle rimane nel limbo chiedendo sia di dimenticare Cechov per farsi rapire dalla danza dei sensi proposta che, allo stesso tempo, continuamente ricordarlo per meglio apprezzare la vastità dei temi riproposti. Un’aporia logica appesantita dalla messe di riferimenti visivi proposti e dalle molteplici solleticazioni sonore che, come nei casi dell’arte concettuale più vetusta, funziona meglio come caso di studio piuttosto che come oggetto di fruizione culturale

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