La recensione del film "28 giorni dopo", di Danny Boyle nelle sale dal 18 giugno

Recensione a cura di Mario Turco

Probabilmente una delle eredità più tossiche di tutto ciò che gravita attorno la critica cinematografica online sono forum, discussioni, commenti, social wars, video youtube, dirette twitch e podcast su quanto debbano essere lenti gli zombie. Se per decenni i non-morti sono stati sempre filmati come cadaveri ambulanti dalla ridotta mobilità ma ferocissimo appetito di carne umana è con due film in particolari che negli anni 2000 l'oltretombesco canone è stato rovesciato: L'alba dei morti viventi, di Zack Snyder e 28 giorni dopo, di Danny Boyle. Ma se il film dell'autore di 300 era dichiaratamente un remake con steroidi del capolavoro di George A. Romero, prodotto per una generazione le cui acque mediali erano irrimediabilmente passate per le ipercinetiche falde videoludiche, il lungometraggio del regista inglese si discostava dalle polemiche creando una propria mitologia, più vicina alle inquietudini del presente e straordinariamente anticipatrici di quelle del futuro. 


Così ecco che gli zombie non erano maledetti da una qualche forma di maledizione, hoodoo o vudù che sia, bensì erano "infetti" dal virus della rabbia, la cui mutazione aveva prodotto una pandemia di immane proporzioni. Qui finalmente i terribili mangiatori di carne umana potevano anche concettualmente essere etichettati come runners dato che erano vittime di un agente infettivo che in qualche secondo cambiava per sempre il loro corpo. In "28 anni dopo", di Danny Boyle nelle sale italiane dal 18 giugno grazie alla distribuzione di Eagle Pictures, la visione di zombie così aggressivi e prestanti smette di disturbare i puristi del genere perché diventata essa stessa la base per un mondo ormai pacificamente codificato - sia il sequel del 2007 28 settimane dopo che il prossimo capitolo in uscita l'anno prossimo diretto da Nia Da Costa. E il film del ritrovato Danny Boyle, che riprende le redini della saga insieme allo sceneggiatore dell'originale, quell'Alex Garland di cui scriveremo tra poco, è un sorprendente e riuscito viaggio nella terra di mezzo zombie che è diventata il Regno Unito dopo la Brexit virale. 28 anni dopo apre con un notevole prologo rock che tra Teletubbies (il bersaglio più facile del sarcasmo garlandiano che per fortuna cade lì senza più colpo ferire) e genitori che squartano bambini urlanti si diverte a rifornire le coordinate di genere dell'inizio dell’orribile contagio. Arriviamo al presente diegetico quando nella comunità situata in una piccola isola scozzese, collegata alla terraferma da un'unica lingua di terra attraversabile solo con bassa marea, la famiglia formata dal burbero padre Jamie (Aaron Taylor-Johnson), la madre malata Isla (Jodie Comer) e il figlio dodicenne Spike (Alfie Williams) è alle prese col battesimo di sangue del ragazzo per andare a uccidere sulla temibile Gran Bretagna il suo primo infetto. Sfruttando così il più classico degli espedienti per ricalibrare gli stilemi della caccia agli zombie – lo sguardo del ragazzo che dopo un duro allenamento scopre che gli scontri veri sono ben più difficili è una struttura narrativa che risale ad Omero ma allo stesso tempo richiama tanti survival di successo (The last of us!) e perfino i cinecomis adolescenziali – lo sceneggiatore Garland e il regista Boyle si tengono lo spazio necessario per scompaginare a proprio piacimento le ferree regole dell’horror. Se il secondo si conferma un dj visivo formidabile riuscendo, come nei suoi film migliori, a pompare le scene più truculente con un colonna sonora da urlo che spazia dal rap al metal toccando punk e psichedelia, è la scrittura del primo a dare al lungometraggio un ritmo e una caratura metaforica di grande impatto. 


Come detto nell’anteprima romana da Boyle, infatti, “28 anni dopo parla di orrore e rabbia, ma parla anche della natura della famiglia, di cosa accade all’interno delle famiglie, come queste si possono fratturare e come possano essere luogo in cui si generano dei traumi”. Diviso quasi in due tronconi distinti, il film affronta due parti del cammino di vita di Spike speculari ma complementari: nella prima il ragazzo subisce l’autorità violenta del padre che per il supposto bene della comunità gli insegna in maniera autoritaria l’esercizio della violenza contro gli infetti mentre nella seconda è lui a stesso ad intraprendere la perigliosa ricerca del dottor Kelson (un Ralph Fiennes straordinario) insieme alla madre sempre più debilitata per cercare di guarirla dalla grave malattia. Il trauma del contagio viene quindi affrontato in un’ottica sia maschilista che femminista dando modo a Garland di riprendere e affinare le critiche presenti nella sue ultime uscite da regista, da “Men” a “A Civil war”. In fondo anche 28 anni dopo utilizza l’horror per imbastire, questa volta in maniera appassionante e non pedante, un discorso sui mali di una società già disgregata e atomizzata prima dell’esiziale contagio. Boyle però attenua il nichilismo di questo sguardo attraverso il percorso di formazione compiuto dal protagonista Spike che impara a proprie spese come il triste memento mori non esima il rabbioso umano dal ben più necessario (e purtroppo misconosciuto) memento amaris.

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