La recensione di "M3GAN 2.0", di Gerard Johnstone nelle sale italiane dal 26 giugno distribuito da Universal Pictures

 Recensione a cura di Mario Turco

La storia dell'Intelligenza Artificiale è scritta dal cinema. Non soltanto in termini produttivi - la quasi totalità delle professioni della settima arte ormai lavora a stretto contatto con i bracci armati di quella generativa, dal suono alla sceneggiatura - quanto in merito all'indefettibile lavoro che la settima arte sta compiendo sull'immaginario collegato alla nascita prima e al continuo divenire poi di questa massiva tecnologia. Che siano prodotti destinati al consumo delle piattaforme, vecchi blockbuster creati per puntellare con incassi strabordanti il circuito legato alle sale o riflessioni autoriali sui cambiamenti personali dovuti all'ultima delle rivoluzioni copernicane, i lungometraggi degli ultimi anni mettono quindi spesso al centro delle loro storie sistemi artificiali ormai così complessi da sostituirsi agli umani anche negli ambiti più creativi. 


L'ultimo film in questo caso che si situa figurativamente al centro delle tensioni sociali, economiche e filosofiche del periodo è "M3GAN 2.0", di Gerard Johnstone nelle sale italiane dal 26 giugno distribuito da Universal Pictures. Sequel uscito a furor di popolo dopo il capostipite del 2022 firmato dallo stesso regista - ma soprattutto dall'immancabile Blumhouse -, sin dal titolo boomeristico potrebbe sembrare il classico sfruttamento commerciale del successo originale e il tentativo di creare una nuova icona horror nell'affollato pantheon del genere. E invece M3GAN 2.0 si rivela da subito uno dei seguiti più riusciti dell'ultimo decennio, capace di compiere un ribaltamento di genere e un ampliamento delle sue ambizioni non dissimile da quello compiuto dal “Terminator 2 – Il giorno del giudizio”, di James Cameron. Una correlazione, questa, ricercata dallo stesso Johnstone e dal suo team che, come per il regista canadese nel 1991, dopo aver scritto il codice sorgente dell'intelligenza/bambola assassina nel primo episodio adesso si divertono ad esplorarne le potenzialità sia in ambito teorico che fàtico. M3GAN 2.0, infatti, ha una prima parte che dialoga intelligentemente col sopraccitato discorso cinematografico avvenuto negli ultimi anni attraverso diverse linee narrative: la robotista Gemma che, dopo gli eventi del primo film, è diventata una paladina civile per la regolamentazione dell'intelligenza artificiale; l'azienda della difesa che sfruttando le sue scoperte crea Amelia (Ivanna Sakhno), arma d’infiltrazione letale e intelligente che ben presto acquisisce consapevolezza ribellandosi ai suoi creatori; il ruolo del tycoon cibernetico interpretato da Jeimane Clement che acquisisce i suoi rivali come il Bill Gates di Microsoft ed è ossessionato dai chip neurali come l'Elon Musk di Neuralink. Ma, ed è questo il principale merito della sceneggiatura, pur conservando un tono allarmistico sui pericoli connessi all'abuso (la sequenza dell’home-invasion di misteriosi assalitori che vengono sconfitti dal gateway di uno smart-home) di questa tecnologia lo sguardo non diventa mai messianico come quello di Ethan Hunt con la sua Entità o apocalittico come quello degli ultimi episodi della saga di Terminator. 


M3GAN 2.0, infatti, lascia che la protagonista di questa storia dall'impianto spy-thriller resti la "bitch" dell'uncanny valley, puntando fortissimo sulla sua consapevolezza di essere una macchina senziente e onnipotente, costretta a interagire con "sacchi di carne" che faticano a comprendere la connessione spietata dei suoi ragionamenti: "Preferisci che te lo stampi, così lo leggi con i tuoi tempi?!". In questa torsione verso l’action dinamitardo e ironico – c’è pure una sequenza di arti marziali all’interno di un club, probabilmente lo stereotipo più riconoscibile del genere degli ultimi vent’anni – ad essere sacrificata è la componente horror, con le poche violenze castrate dal montaggio PG-13. Si tratta di un sacrificio probabilmente necessario per la definitiva esplosione mediatica di Megan che non inficia però su un’operazione coraggiosa e studiata ottimamente, lontana da quel cinema-prompt che è Hollywood da ben prima che Chat-Gpt fosse soltanto pensata.

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