La recensione di "You'll Never Find me - Nessuna via d'uscita", di Josiah Allen e Indianna Bell che grazie a Filmclub Distribuzione sarà nelle sale italiane dal 17 Luglio
Recensione a cura di Mario Turco
Patrick (l'ottimo Brendan Rock) è un uomo solitario che si è ritirato a vivere in una casa mobile nella parte più remota di un campeggio isolato. Dopo lo scoppio di un violento temporale, una misteriosa ragazza (Jordan Cowan) si presenta alle due di notte alla sua porta in cerca di riparo dal maltempo. La giovane donna è senza scarpe né cellulare e vorrebbe telefonare per chiamare un taxi. L'uomo si accorge però ben presto delle piccole bugie che in maniera prima innocente e poi sempre più pervasiva l’apparentemente libertina ragazza dice: non sa spiegare come è arrivata lì nonostante il cancello del camping chiuda a mezzanotte, mente sul suo domicilio e arriva perfino a temere di essere drogata proprio dalla persona a cui ha chiesto aiuto. Ma anche Patrick, dietro il suo burbero ma razionale aspetto, comincia a mostrare crepe nella narrazione di sé: chi dei due sta giocando sporco in questa notte minacciosa e gravida di orrore domestico? You'll Never Find me - Nessuna via d'uscita è un elevated horror che dietro la sua antica e teatrale facciata nasconde un proficuo dialogo metaforico e di sostanza col proprio tempo. I due soli personaggi che condividono la singola location - un applauso va fatto indubbiamente ai due registi che riescono a gestire il poco spazio scenografico con un'attenta gestione di riprese e montaggio – sembrano giocare infatti a rimpiattino con le proprie attese e i propri pregiudizi: se lei conferma di essere uno spirito libero salvo ammettere che spesso le sue coetanee sembrano solo cercare guai, lui sa di essere guardato con sospetto soltanto perché maschio. Ed è in questa prima parte fatta di primi piani e dettagli ossessivi (gli sguardi sulla porta, le plongèe sul lavabo, il telefono continuamente evocato come via di fuga) che l’accumulo di non-detti, insinuazioni e pezzi di storia tiene alta l’attenzione dello spettatore. Anche la rottura del patto sociale vissuto dai due protagonisti che si estrinseca nel doppio e pessimistico “siamo falene del cazzo” in relazione al rapporto che noi umani abbiamo con la paura e gli errori denota la volontà di una scrittura che vuole andare oltre le barriere castranti della sceneggiatura ad effetto.
I problemi principali di Nessuna via d’uscita sono quindi sostanzialmente due, e questi funzionano purtroppo come vasi comunicanti che mirano a un equilibrio disfunzionale per la buona riuscita di un esordio fin troppo ragionato: la pretestuosa serietà del progetto e la deriva moralistica che si palesa nel finale. Le allusioni sociali e politiche diventano infatti presto invettive che si piegano sotto il peso di una visione che perpetua l’eterno femminino: l’uomo è oppressore e la donna, anzi, il gineceo fantasmatico degli ultimi visionari (ma quanta stanchezza si avverte proprio nella parte in teoria più libera: le allegorie possono essere più elementari degli enunciati minimi) minuti è un tributo innocente (sappiamo tutto dell’ascia che le decapita ma mai nulla delle teste decollate) alla violenza di genere. Nessuna via d’uscita è allora interessante perché mostra come ad oggi sia il thriller ad essere considerato oggetto di consumo mercificato mentre l’horror è assurto nell’empireo dei generi alti. Se questo è il risultato forse sarebbe l’ora di tornare a lavare i panni insanguinati in qualche fiumiciattolo piuttosto che nell’Arno arthouse.