Recensione: "Volti. Un'antropologia", di David Le Breton

Titolo:
Volti. Un'antropologia
Autore: David Le Breton
Editore: Meltemi
Pagine: 400
Anno di pubblicazione: 2025
Prezzo copertina: 24,00 €

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Recensione a cura di Mario Turco

Cos'è un volto? Qual è il significato che assume all'interno di una determinata società? Che rapporto soggiace tra il volto e il proprio Io? Queste sono solo alcune delle abissali domande poste da un saggio bello e importante come "Volti", dell'antropologo francese David Le Breton pubblicato da Meltemi. Come scritto nella quarta di copertina, infatti, "per l’individuo il volto è la casa del proprio essere: cristallizza il suo nome, precede la persona, ne segnala la presenza, indica già se è conosciuta o meno e le sue eventuali intenzioni". Non facendosi scoraggiare dall'ampiezza della ricerca, nel suo libro l'autore francese prova quindi a definire "un'antropologia" - questo l'ecumenico sottotitolo che l'accompagna - che analizzi il soggetto d'indagine come fosse una specie di variazione linguistica. 


Ecco infatti che nell'arco delle scorrevolissime 396 pagine del suo tomo Le Breton, con linguaggio da divulgatore accademico mai pedante e, allo stesso tempo, mai iper-semplificato, conduce il proprio lettore negli spazi diacronici, diatopici, diamesici e diafasici che hanno contrassegnato questo "biglietto da visita" sin dall'homo sapiens. Come argomenta infatti l'autore già nell'Introduzione: "ciascuno di noi porta segretamente con sé la propria mitologia, il proprio tesoro di emozioni suscitate da un'infinità di volti. Dalla scultura alla pittura, dallo specchio alla macchina fotografica, la storia del volto è in gran parte la storia dei media". Ed è davvero incredibile come una delle storie più ricche dal punto di vista antropologico nasca da una base fisica così ridotta: "I volti costituiscono infinite variazioni di uno stesso, semplice canovaccio. Ci si sorprende di una tale diversità di forme ed espressioni, quando i materiali che li modellano sono così pochi". Suddiviso in nove capitoli che sono più ispirazioni tematiche che un'euclidea analisi scientifica (e questo è indubbiamente un bene per un libro che, come detto, aspira più alla sagace illuminazione che al definitivo dispiegamento di un argomento inesauribile), Volti aggiorna la prima edizione del 1992 al presente post-pandemico partendo da un assunto di base che connota l'intero apparato del discorso teorico: "l'antropologia del volto è quella di un enigma". Lo sguardo di Le Breton, infatti, abbraccia sempre il dubbio anche quando porta robusti dati analitici a conferma delle sue tesi e cerca (trovandola) la complicità del lettore nella smitizzazione di alcuni dei più grandi pregiudizi inerenti i nostri visi perché, in fondo, "il volto rivela tanto quanto maschera". Ne è un esempio il secondo capitolo, tutto arcuato a demolire con ironia e (per una volta) sano intellettualismo progressista le evidenze proto-scientifiche della fisiognomica dell’età moderna e contemporanea. La perniciosa tendenza ad ammantare di razionalità illuministica quelli che erano soltanto maschere di pregiudizi – “L’Altro è sempre indiscutibilmente brutto” -, viene sottolineato a più riprese da Le Breton ricordando che gli studi di Buffon e Virey contribuirono purtroppo alla perpetuazione di stilemi razzisti che finirono perfino nell’Enciclopedia di Diderot e D’Alembert: alla voce “nègre” si poteva leggere infatti “Non solo il loro colore li distingue, ma si differenziano anche dagli altri uomini per tutti i tratti del viso; nasi larghi e piatti, labbra grandi e lana al posto dei capelli sembrano costituire una nuova specie di uomo”. 


Il volto diventa allora nel corso dei secoli il campo di battaglia per il riconoscimento identitario non solo delle diverse etnie ma anche del proprio Io durante lo scorrere del tempo. Nel sesto capitolo, intitolato “Invecchiamento: quando non ci si riconosce più”, Le Breton volge infatti il suo crudo ma mai crudele sguardo verso i cambiamenti che il proprio viso subisce impietosamente nel corso degli anni. Il volto interiore non corrisponde più a quello esteriore, come dimostrano le numerose citazioni portate dall’autore per irrobustire la sua tesi. Simone de Beuavoir scrisse ad esempio parole davvero amare in tal senso: “Forse, la gente che m’incontra vede semplicemente una cinquantenne né bene né male, con l’età che ha. Ma io vedo il mio volto di un tempo su cui è posato un vaiolo da cui non guarirò mai”. L’indagine dell’autore non ha paura perfino di diventare dolorosa nell’ultimo capitolo, il nono che, in maniera editorialmente coraggiosa, affronta i traumi che la deturpazione del volto comporta quando si è sfigurati geneticamente o a causa di incidenti. Volti è allora un libro prezioso, impregnato di dolce umanità e che, senza nascondere le sue finalità educative, cerca di insegnare al lettore il valore dell’elemento più superficiale e spesso banalizzato del corpo perché, come scrive Le Breton nella sua Ouverture, “ciascuno di noi esiste unicamente attraverso il volto che mostra agli altri”.

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David Le Breton è professore di Sociologia all’Università di Strasburgo e membro senior dell’Istituto Universitario di Francia. È inoltre titolare della cattedra di Antropologia dei mondi contemporanei presso l’Istituto di Studi Avanzati (USIAS). Tra le sue pubblicazioni in italiano ricordiamo: Il sapore del mondo (2007); Esperienze del dolore (2014); Fuggire da sé (2016); Ridere (2019); La vita a piedi (2022); Antropologia delle emozioni (2023). Con Meltemi ha già pubblicato: Antropologia del dolore (2016); La pelle e la traccia (2016); Antropologia del corpo (2021). In inglese è apparso anche il saggio Sensing the World (2017).

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