Recensione: La fine di tutte le cose, di China Miéville

Titolo: La fine di tutte le cose
Autore: 
China Miéville
Editore: Fanucci
Pagine: 512
Anno di pubblicazione: 2019
Prezzo copertina: 20,00 €


Recensione a cura di Mario Turco

Può un libro di 500 pagine di genere riuscire nel suo faticoso dispiegamento a non raccontare una buona storia fantasy, a non sviluppare caratterialmente nessuno dei suoi protagonisti, ad accennare a decine di interessanti letture metaforiche del reale senza approfondirne nessuna, a non annoiare il lettore ma nemmeno a renderlo partecipe di qualche emozione empatica? La risposta è sì se parliamo de “La fine di tutte le cose”, di China Mièville edito a Gennaio da Fanucci Editore che porta finalmente in Italia anche questo romanzo del famoso autore
inglese, uscito in patria nel 2010 col ben più esplicativo titolo “Kraken”. 

Autore rappresentante della corrente letteraria nota come "New Weird", egli nelle sue opere fonda il gusto per la narrazione di altri mondi interdimensionali ad un certa passione per l'horror e la violenza pulp, come dimostrato dal suo dichiarato amore per H.P. Lovecraft, Jules Verne e H.G. Wells, alcuni degli autori presenti nei Ringraziamenti finali del libro. Non solo la varietà dei gusti ma una curiosa formazione biografica contribuisce ad incidere sulla scrittura del romanzo: Mièville ha infatti un dottorato in Antropologia sociale conseguito presso l'Università di Cambridge ed è un socialista di fede marxista anti-capitalista. Ciò si può vedere anche in questo "La fine di tute le cose" con il personaggio di Wati, singolarissima figura eterea di sindacalista che passa il suo io attraverso varie forme tridimensionali (quasi sempre bambole e pupazzi!) cercando di riunire e radicalizzare gli oggetti magici sfruttati dai maghi borghesi/oppressori. Buona trovata che però l'autore non sa capitalizzare (sic) fino in fondo. Nonostante le reiterate descrizioni dei tentativi falliti di riunire in assemblea scope volanti e famigli, animali usati attraverso vari truccheggi (neologismo del romanzo) come spie o messaggeri, l'idea non trova una sua compiuta attuazione né riesce a divertire per il suo parallelismo. Il problema principale dell'opera sta proprio qui, nel suo essere stata pensata, scritta e messa per immagini con l'attenzione riverente dell'autore di genere e contemporaneamente con l'attitudine punk di chi vuole rinnovare stilemi che necessitano di una rottamazione strutturale. 

In fondo "La fine di tutte le cose", dal punto di vista narrativo, risponde a schemi collaudati: vicenda di fuga-ricerca, detection da parte di un neofita che nel corso della storia prenderà coscienza della nuova strabiliante realtà, personaggi weird (fin troppo: la poliziotta Collingswood palesa sempre la sua funzione iconoclasta non diventando mai il personaggio carismatico che invece dovrebbe essere), creazione di una Londra sconosciuta ai babbani. Su quest'ultimo punto, il continuo richiamo alla sentimentalizzazione della capitale inglese che avverte sin nei suoi più sordidi anfratti l'imminente apocalisse, sfocia spesso nell'auto-referenzialità di stampo squisitamente insulare. Il romanzo di Miéville nonostante le accattivanti premesse, non vuole giungere ad esiti barocchi o fantascientifici ma sceglie di farsi governare sempre e comunque dall'intelligenza del suo autore. Le metafore sul calamaro gigante, finto-protagonista dell'opera, sul culto che ha generato, sulla sua presenza-assenza (e i giochi di parole semantici/sintattici su questo tema sono troppi), fanno sì che esso non diventi mai un mostro a tutti gli effetti in grado di terrorizzare o guidare la fine di questo mondo. Intento a creare una perfetta urban fantasy l'autore sceglie coscientemente di depotenziarla quasi ad ogni passo, come un autore riottoso costretto suo malgrado in questo gioco narrativo. Manca del tutto la dimensione più propriamente ludica, non limitata a trovate geek fin troppo facili (l'action figure del capitano Kirk di Star Trek) ma quella che ti porta a schierarti con i personaggi, a tifare per il successo dei buoni e dei cattivi, a credere nella possibile esistenza delle straordinarie vicende che stai leggendo. A "La fine di tutte le cose" manca, insomma, l'ingenuità della letteratura popolare a cui si sforza di appartenere.

L'AUTORE
China Miéville è nato a Londra nel 1972. A diciotto anni si è trasferito in Egitto, dove ha insegnato inglese e si è interessato alla cultura araba e alla situazione politica mediorientale. È laureato a Cambridge in Antropologia sociale e ha conseguito un master presso la London School of Economics. Per Fanucci Editore ha pubblicato Un regno in ombra, suo romanzo d’esordio nominato per l’International Horror Guild e il premio Bram Stoker nel 1999, Perdido Street Station, vincitore nel 2001 dei premi Arthur C. Clarke e British Fantasy, La città delle navi, vincitore nel 2003 dell’International Horror Guild e del Bram Stoker, Il treno degli Dèi, vincitore nel 2005 dei premi Arthur C. Clarke e Locus, Il libro magico, vincitore nel 2008 del premio Locus, e La città e la città, vincitore nel 2010 dei premi Arthur C. Clarke, Hugo e World Fantasy, nonché nominato al Nebula. Embassytown è stato nominato per il premio Hugo 2012 nella categoria Miglior romanzo.

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