La recensione dello spettacolo "Amleto e sua moglie Ofelia", andato in scena in diretta Facebook sulla pagina del Teatro Studio Uno
Recensione a cura di Mario Turco
Sarebbe oltraggioso nei confronti di “Amleto e sua moglie Ofelia” continuare sulla contingenza della situazione (RESISTERE, RESISTERE, RESISTERE!) perché l’opera scritta nel lontano da Gabriele Linari nel 2003 e probabilmente limata nel corso degli anni, è un testo scintillante che parte, come facilmente deducibile, dall’originale shakespeariano per una riflessione più moderna sulla religione, l’amore e la famiglia. L’inizio dell’opera sembra assecondare la cupezza dell’immortale capolavoro del Bardo: Ofelia canta una nenia su una base elettronica, presenza fantasmatica cerchiata da una luce rosso horror. Ma presto il palco si apre alla luce, rappresentata per contrappasso dalla prima apparizione del tenebroso principe di Danimarca. In questa versione della storia egli è riuscito a salvare Ofelia dal suicidio e ne è diventato l’amorevole marito. I due coniugi però battibeccano sempre perché se da una parte Amleto sembra destinato a rappresentare per sempre il logorante raziocinio dell’essere umano (“Il silenzio mi assorda”, prorompe con rabbia) la moglie ne è il controcanto puro, ingenuo, che gli si contrappone sin dalla manifesta religiosità. Ofelia appare come una credente idolatra che ha bisogno di stringere la grande croce, portarla con sé ogni volta che inavvertitamente nomina invano il suo Dio, odorarne perfino il legno. Il suo candore non è però così innocente perché riesce a contrapporsi fieramente alla filosofia pessimista del suo compagno tanto da canzonare proprio una delle sue massime più famose: “Esiste una speciale Provvidenza anche nella caduta di un passero”.
Amleto per tutta la durata dell’opera si arrovella dietro ai suoi tormenti e bellissima è l’esemplificazione che ne fornisce la moglie: “Tu ci parli con i tuoi pensieri, ci mangi. Stai più con loro che con noi”. Già noi, perché in questa pièce nemmeno il pensiero di diventare egli stesso padre e riscattare così l’omicidio di quello putativo riesce a lenire la sua profonda sofferenza. Si vedano le continue caustiche bordate contro la fede della moglie, che servendosi pure dell’analogia con Pinocchio dopo un errore fonetico (Giuseppe, il padre di Gesù, scambiato per Geppetto nella foga della pronuncia), cercano di demolire attraverso la loro razionalità l’edificio di credenze di Ofelia. Molto interessanti in questo senso le analogie con il capolavoro di Collodi: se Orazio è il Lucignolo di Amleto, strappa gli applausi l’omologia tra Rosencrantz e Guildenstern e il Gatto e la Volpe. Anche le luci accentuano il contrasto coniugale: lui sta nella parte di palco illuminata da una fosca luce giallastra, intento a scrivere per poi continuamente stracciare i suoi forsennati dilemmi, mentre lei è avvolta da una luce bianca con accanto la fedele croce. In “Amleto e sua moglie Ofelia” il racconto di questo continuo dialogo sembra la rivisitazione personale del regista Gabriele Linari dei numerosi monologhi della tragedia di Shakespeare. Eppure, nonostante alcuni gustosi momenti parodistici culminanti nella gag che coinvolge il preclaro teschio di Yorick, la storia sul finale vira inevitabilmente (è sempre Amleto, cribbio!) sul dramma. La bravissima Elisa Carucci dalla voce fin lì dolcissima (sia lei che Daniele Giuliani sono doppiatori, e si sente) interpreta con grande piglio il monologo chiudendolo con un aforisma che racchiude al suo interno la sua condizione problematica di donna e perlopiù suicida: “Nemmeno annegare ci è concesso. Perché è peccato”. Dopo che Amleto racconta il macabro viaggio fatto a Wittenberg, naturalmente in un cimitero, alla donna non resta che cominciare a bere acqua in maniera via via sempre più scomposta, in un'immagine che conferma “la maledetta tirannia degli occhi” della razionalità.