La recensione del film "A Chiara", di Jonas Carpignano. Al cinema dal 7 ottobre

Recensione a cura di Mario Turco

La mafia e i giovani. Sembrerebbe il titolo di una delle tracce dettate dal Ministero della Cultura per gli esami di Stato della scuola superiore ed invece è il tema al centro dell'ultimo film di Jonas Carpignano “A Chiara”, in uscita nelle sale dal 07 Ottobre distribuito da Lucky Red. Presentato a Cannes alla Quinzaine des Réalisateurs e terzo film di quello che è l'astro nascente più felicemente misterioso e sotterraneo del nostro cinema, - “Mediterranea” e “A ciambra” hanno avuto una distribuzione striminzita nonostante i consensi ottenuti all'estero e il plauso di sua maestà Martin Scorsese -, A Chiara indaga gli effetti della scoperta della ragazza protagonista di essere figlia di un padre colluso con l'ndrangheta. Conservando intatta la cifra documentaristica dei suoi precedenti lavori e la particolare locazione geografica – quella terra di mezzo, copyright Mafia capitale, rappresentata dalla piana di Gioia Tauro - questo lungometraggio si apre alla narrazione finzionale, incistando il racconto del reale ad una storia scritta dallo stesso Carpignano che il regista ha consegnato ai suoi attori giorno per giorno, senza che potessero sapere come la vicenda si sarebbe sviluppata. E proprio questa modalità di lavorazione, unita alla scelta di interpreti non professionisti che vestono panni molto vicini a quelli indossati nella vita di tutti i giorni, è la forza di un lungometraggio che cavalca l'onda lunga del genere probabilmente più rilevante della nostra cinematografia recente, ossia il cinema documentaristico. 


Insomma, piegare il reale ad un copione ma facendo sì che l'oggetto sia sempre libero di adagiarsi alle continue sollecitazioni del soggetto. Così la reazione di Chiara di fronte alla veste criminale che la sua quotidianità assume e che fino a poco prima le veniva nascosta – troppo piccola e troppo donna con i suoi 15 anni di scontrosità ragazzina Instagram in una società rigidamente patriarcale – prende forme, tempi e reazioni della sua splendida interprete, Swamy Ruotolo. Carpignano è davvero eccezionale nel cucire il film attorno alla sua protagonista, esaltandone le contraddizioni e cullandosi della sua confusione, tra il fortissimo accento calabrese della giovane e la sua infantile voglia di non rinunciare ai riti mondani della sua età, come spettegolare su un muretto con le amiche cantando stonate o nascondendo alle compagne di classe la fuga del padre malavitoso braccato dalla polizia. E pensare che, coma ha dichiarato lo stesso regista italo-statunitense, noi spettatori abbiamo corso il rischio di perdere una grande performance proprio per i suoi capricci adolescenziali: “All’inizio non voleva farlo, una volta saputo che si girava anche il sabato. A quell’età - 16 anni - non vede l’ora di uscire tutte le sere”. 


A Chiara unisce alla precisa radiografia del contesto sociale – l'impossibilità per gran parte della popolazione di Gioia Tauro di affrancarsi dal dominio mafioso, unico baluardo “istituzionale” presente sul territorio considerata la debolissima presenza dello Stato – un pedinamento molto partecipato sulla sua giovane protagonista e più in generale sul clan Guerrasio, interpretato anche questo interamente dalla famiglia Rotolo. Ecco che il tentativo di Chiara di affrancarsi da un presente e da un futuro segnati, la progressiva presa di coscienza di doversi svincolare da logiche mafiose e patriarcali che, sebbene apparentemente non inclini alla violenza – fondamentale il distacco esibito da Carpignano nella mancata condanna morale del padre Claudio, giustificato e auto-giustificatosi come bassa manovalanza di un traffico di droga che arricchisce altri – debba infine rassegnarsi al distacco e all'esilio da una terra che per i figli dei mafiosi appare condannata. Il film nella seconda parte affronta infatti il nodo cruciale della separazione coatta dei figli degli 'ndraghetisti dai loro nuclei sociali tramite affidamento a famiglie del Centro e Nord Italia, come se l'eradicazione delle persone dalla Calabria fosse l'unico modo con cui lo Stato pensa di poter tagliare i ponti con un modo di vivere avvertito come Altro da sé e quindi non da combattere culturalmente ma da cui fuggire fisicamente. Ed è davvero bellissima la scena del 18esimo compleanno di Chiara che, accettata la collocazione dei servizi sociali, vede gli amati padre, madre e sorelle come fantasmi sfocati nello specchio del bagno di una famiglia alto-borghese marchigiana. Il film si chiude allora come si era aperto, con la festa della maturità anagrafica che per Giulia Guerrasio certificava l'appartenenza all'ambiente sociale di Gioia Tauro mentre per la sorella Chiara esso suona come il più allegro dei requiem.

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