Recensione a cura di Mario Turco
Il film del regista francese adatta molto liberamente uno dei romanzi più riusciti di George Simenon, scritto con la solita incredibile velocità dall’11 Gennaio al 18 Gennaio del 1954 in appena una settimana, “Maigret e la giovane morta”, e finora stranamente trasposto soltanto dalle serie televisive di minor importanza basate sul personaggio, come quella olandese e quella britannica. Leconte scorge invece nel plot di un’indagine apparentemente banale il cuore della poetica simenoniana dando a questa sorta di revival il giusto carattere di monumentalità. “Maigret” infatti, per dirla nei termini dell’odierna semantica critica, non è un’origin story né un reboot ma un semplice episodio, pur distante temporalmente, dell’enorme saga composta da ben quattordici pellicole cinematografiche e tratte a loro volta da tredici romanzi e due racconti brevi, sul commissario che opera dalla stazione di polizia del 36 di Quai des Orfèvres. Non c’è quindi bisogno di presentare il personaggio né di spiegare alcuni dei suoi vezzi più caratteristici, semmai si può intervenire con sottile e perverso piacere nelle variazioni incentrate sulle deluse aspettative dello spettatore (il riferimento è sempre al fondamentale saggio semiotico di Umberto Eco “Lector in fabula. La cooperazione interpretativa nei testi narrativi” e a quella specie di fenomenale messa in essere delle tesi dello studioso italiano esercitata da Raymond Queneau in “Esercizi di stile”). Ecco allora che il film si apre con il divieto imposto dal medico al commissario di fumare la sua celebre pipa per una non meglio identificata macchia nei polmoni che, oltre a preparare ad una visione atipica del personaggio, riesce sottilmente a dare un presentimento di morte alla vicenda narrata. Nel frattempo, la MdP segue per qualche minuto le vicende di una bella e triste ragazza che, venuta a Parigi per riscattarsi da un passato d’abusi nella provincia francese, affitta uno sfavillante abito da sera per intrufolarsi, non invitata, alla festa di fidanzamento ufficiale di due ricchi ragazzi de Villa Lumière. I due futuri sposi la portano in un angolo, di nascosto agli altri ospiti, per intimarle violentemente di lasciare la sfarzosa cerimonia e quando dopo lo stacco di appena un’inquadratura il corpo della giovane viene trovato orribilmente pugnalato dalla polizia la domanda sorge spontanea: la componente thriller si riduce davvero a questo semplice rapporto di causa/effetto o siamo di fronte ad un congegnato e depistante giallo?
“Maigret”, per chi ha solo un’infarinatura del personaggio, si accorda naturalmente alla prima opzione e mostra, senza i pirotecnici metodi induttivi del giallo inglese né le spicce indagini dei thriller statunitensi, i metodi del commissario francese basati sull’analisi del comportamento umano ed una paziente quanto attenta riflessione sui pochi fatti a disposizione. Pur punteggiata dalla progressione giallistica, il lungometraggio di Leconte si concentra sul rapporto stabilito dal suo massiccio protagonista con la potenziale nuova “giovane morta” Betty (Jade Labeste), che sembra ripercorrere negativamente le stesse tappe dell’assassinata Louise (Clara Antoons). “Maigret” ogni tanto indugia sul sentimentalismo della sua confezione che, seppur asciugato, rischia a più riprese di sommergere la componente mistery ma ha il principale merito di riuscire a sintonizzarsi col (finto) semplice moralismo di Georges Simenon riuscendo a raccontare con ruvidezza, un po’ reazionaria un po’ classista (i ricchi debosciati dalla loro opulenza funzionano meglio sulla carta che al cinema), il dramma ordinario di una fanciulla uccisa anche dalla sua solitudine metropolitana. Forse anche Maigret la raggiungerà presto, come suggerisce il criptico/poetico/mistico finale in cui Gerard Depardieu sparisce in dissolvenza: se questo fosse davvero l’ultimo caso del commissario francese sarebbe il più truce delitto cinematografico del 2022.