La recensione di "Antenati - The grave party", di e con Marco Paolini in scena al Teatro Vascello di Roma fino al 19 Marzo

Recensione a cura di Mario Turco

In un mondo sempre più attanagliato dalla prossimità dell’apocalisse climatica che, come tutte le fini definitive, viene centellinata a poco a poco facendoci credere ad ogni goccia di disastro che amaramente beviamo che sia comunque ancora possibile evitare l’inevitabile esito, guardiamo smarriti verso tutte le parti. Verso il futuro, naturalmente, che cerchiamo globalmente di salvaguardare con ambiziosi piani di riduzione di emissioni di gas serra (il “Fit for 55” europeo è sicuramente il più bello ma anche il più irrealizzato dai Paesi membri) ma anche verso il passato, alla ricerca se non di una saggezza ecologica difficile da trovare in esseri che non avevano scavalcato in maniera così profonda la soglia d’avvertimento quantomeno di una saggezza innocente che sappia fornirci strumenti utili a dipanare i nodi della rovina che ci stringono mani e piedi. È con questo intento che “Antenati – The grave party”, scritto ed interpretato da Marco Paolini con la produzione di Michela Signori e Jolefilm ed in scena al Teatro Vascello di Roma fino al 19 Marzo, chiama sulla scena addirittura migliaia di suoi avi per provare a trovare nuove strade di salvezza e, lateralmente ma non troppo, di racconto dell’oggi. 


L’ultimo spettacolo del notissimo attore ed autore veneto dopo un significativo work in progress che è cominciato l’anno scorso con reading pubblici e consulenze scientifiche, è passato poi in televisione per giungere in maniera definitiva nei teatri, riprende la forma oramai canonica del monologo d’impegno civile toccando appunto temi come l’ambiente, il rapporto con la tecnologia e la necessità del recupero delle proprie radici per leggere le tragedie del più recente presente. Ecco allora che “Antenati – The grave party” (gustoso gioco di parole che prende in giro la prima emergenza creata dal governo Meloni) immagina l’incontro del protagonista con le 4.000 generazioni che lo collegano ai nostri progenitori comuni, un nucleo di Homo sapiens sapiens composto al 90 per cento da abitanti dalla pelle nera dato che, come più volte ricordato da Paolini, tutti gli abitanti della nostra specie in maniera indiscriminata (perfino i tedeschi erano “sicuramente ariani ma negri”!) provengono da quella parte del pianeta. Chiamando a raccolta diversissimi ma in fondo sempre uguali rami di progenitori, il protagonista vuole allora ricercare in maniera sardonica l’origine di alcuni dei nostri più grossi difetti per capire quali siano magari tare genetiche e quali invece frutto “della nostra seconda natura: la cultura”. L’inizio è in medias res: Paolini esce sul palco in maniera silenziosa e, come se continuasse una comunicazione precedente, borbotta: “E allora mi ha chiesto di fargli vedere le tasche”. 


Come se dovesse prendere le misure ricettive al pubblico,i primi quindici minuti del monologo sono però stranamente stentati: la scrittura dell’autore de “Il racconto del Vajont” sembra smarrire il passo nelle pozzanghere mefitiche della comicità da stand-up comedy arrivando addirittura ad inciampare in sciocchezzuole sugli attrezzi impossibili da trovare in garage o, peggio, sui millennials filtrati, spiace constatarlo, con la paternalistica ed ottimistica grossolanità del boomer (“Chi sono i millennials? Quelli che nascono imparati” è una sintesi piaciuta molto al pubblico). Per fortuna però, con l’arrivo in scena (metaforico) degli omonimi antenati sulla tomba del nonno Adelino, questo immaginato incontro intergenerazionale fa fare uno scatto avanti al testo facendogli toccare le vette che il drammaturgo bellunese ha spesso solcato nel corso della sua carriera. Si spazia così dall’esilarante presa di coscienza della pochezza genetica di noi bipedi – gli umani hanno solo 21.000 geni mentre la rucola 28.000 (e fa pure la fotosintesi!) ed il mais 40.000 – alla capacità di adattamento tecnologica che, per paradosso, è più forte nei nostri antenati, dalla necessità esistenziale dell’amigdala che a differenza della più calma corteccia cerebrale manda impulsi d’allarme ad ogni pericolo fino alla migrazione come pratica sociale inscritta nel DNA di tutti gli 8000 nonni a cui fa riferimento lo spettacolo. Come dice lo stesso Paolini in un’intervista, dentro l’andamento retro/post favolistico (urge ricordarlo: dentro favole e fiabe antiche sono conficcati i drammi più terribili dell’umanità) di “Antenati – The grave party”si possono scorgere echi de “Cosmicomiche”, di Italo Calvino, a dimostrazione della linea rossa che intercorre in tutta la nostra letteratura: l’arte ha capito da tempo che senza l’aiuto dei nostri antenati siamo destinati a non avere pronipoti, adesso tocca alla politica.

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