Recensione: LA STANZA N° 18 di Mignon Good Eberhart

Titolo: La stanza n° 18
Autore: Mignon Good Eberhart
Editore: Polillo
Pagine: 288 
Anno di pubblicazione: 2013 
Prezzo copertina: 15,40 € 


Recensione a cura di Francesca Fossa


E’ giugno, fa caldo, ma nel romanzo di esordio di Mignon Good Eberhart non troviamo niente di estivo, colorato e splendente. Siamo nel 1929, il clima è afoso, il vento non porta sollievo, ma agitazione, sbattere di porte e ombre che ricordano fantasmi. Pioggia e temporali accompagnano l’indagine parallela dell’infermiera Sarah Keate e dell’investigatore Lance O’Leary. L’azione si svolge tutta all’interno dell’ospedale Sant’Anna, nei suoi giardini e nelle residenze del complesso.

Un paziente è stato ucciso nella stanza numero 18, per sottrarre il prezioso grammo di radio, indispensabile per la sua terapia e dal valore di ben 75.000 dollari. Solo poche ore prima, durante una cena tra i medici e il personale della clinica, molti commensali avevano partecipato a una sorta di gioco “cosa farei se improvvisamente diventassi ricco”. Quasi tutti avevano preso la conversazione per quel che era, un passatempo senza peso; uno, uno solo invece faceva terribilmente sul serio e non avrebbe esitato a mettere in atto un delittuoso piano per arricchirsi in fretta.

Il primo omicidio è solo l’inizio di una catena di morti in un susseguirsi di colpi di scena, inseguimenti al buio, tresche e amori, più o meno leciti, consumati all'ombra di siringhe e bende. Tutti sono sospetti perché tutti avevano movente e possibilità di agire, tutti sembrano innocenti, o colpevoli pur non essendolo. La voce che ci conduce, non solo nelle pieghe dell’indagine, ma anche nei corridoi, nelle stanze e nei giardini è quella della infermiera Keate, dotata di uno spiccato spirito d’osservazione, di ironia, di notevole capacità logico deduttiva e di una non comune capacità empatica che le permette di tratteggiare i profili degli altri personaggi con una precisione psicologica che rende il lettore partecipe dei profondi pensieri, turbamenti e segreti dei protagonisti.

Il finale è a sorpresa, come in tutti i gialli classici che si rispettino. La trama è bene congegnata e le atmosfere credibili, i personaggi azzeccati, insomma un bel romanzo di genere. Unica pecca, una scrittura a volte un po' lenta, ma forse sono gli ottanta anni che ci separano da quando fu scritto a fare la differenza. Tuttavia anche adesso, in un mondo a tutt'altra velocità, può risultare interessante fermarsi, rallentare e prendere un tè con l’infermiera dai capelli rossi.

L'AUTRICE
Mignon Good Eberhart (1899-1996), nata a Lincoln, Nebraska, soprannominata la Agatha Christie americana per la vastità e la qualità della sua produzione, iniziò a scrivere per occupare il tempo libero durante le lunghe trasferte al seguito del marito, un ingegnere civile. Accomunata spesso a Mary Roberts Rinehart per il taglio dei suoi primi romanzi e considerata una vera e propria antesignana di quello che oggi viene chiamato “medical thriller”, la Eberhart ebbe un immediato successo di pubblico e di critica. Il primo romanzo, The Patient in Room 18 (La stanza n. 18) è del 1929 e fu seguito, l’anno dopo, da While the Patient Slept (L’elefante di giada) che si aggiudicò i 5000 dollari dello Scotland Yard Prize per il miglior poliziesco dell’anno. Anche se le prime opere avevano due protagonisti fissi, l’infermiera di mezza età Sarah Keate e il giovane poliziotto Lance O’Leary, la produzione dell’autrice (una sessantina di romanzi, l’ultimo dei quali pubblicato quando stava per compiere 89 anni) è sempre stata caratterizzata da una grande varietà di personaggi, mai riproposti in storie successive, e da uno stile che mutava col passar degli anni adeguandosi all’evoluzione del genere. Nel 1977 fu eletta presidente dell’associazione dei Mystery Writers of America dalla quale, nel 1971, era stata nominata Grand Master.



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