"Tappi di sughero" di Elena Panciera
L'orologio a cucù ha appena battuto le undici e mezza.
Sposto la tenda per guardare giù in strada. Le luci delle poche automobili che
passano illuminano il buio della sera disegnando scie luminose. Guardo Giacomo
che mi osserva con interesse dal divano, immobile. É abituato ad uscire a
quest'ora ogni sera. L'orario è dei meno consueti, ma entrambi lo abbiamo
scelto perché siamo certi che non incroceremo nessuno lungo il nostro cammino.
Sono oramai sei anni che, d'estate e d'inverno, con la pioggia o la neve,
scendiamo per questa nostra abitudine oramai consacrata. Torno a sedermi al suo
fianco. La televisione trasmette immagini di ballerine avvolte da luccicanti
lustrini. Ho tolto il volume, l'immagine basta e avanza. Prendo un pezzettino
piccolo di panettone, tolgo l'uvetta e me lo infilo tra i denti. Tra meno di
mezz'ora si presenterà alla nostra porta l'anno nuovo ma, ne sono certo,
Giacomo è totalmente disinteressato alla cosa, proprio come me. Siamo rimasti
noi due. Lui può contare soltanto su me, io ho solo lui. La solitudine non ci
fa paura, forse ogni tanto avremmo bisogno di una donna che canta in cucina
mentre beve il caffè a colazione, proprio come faceva Margherita. Ci ha
lasciati meno di sei mesi fa, ma Giacomo pare non se ne sia accorto. Meglio cosi.
Mi alzo, ho bisogno di un bicchiere d'acqua. Le pillole che sto prendendo mi
seccano la gola e devo aver sempre a portata di mano qualcosa con cui
dissetarmi. Lo guardo come per chiedergli se ne vuole anche lui, sapendo
benissimo che non mi può rispondere. Abbandono le braccia lungo i fianchi,
sospiro. Mi spiace vederlo così, con me al suo fianco non ha una grande
compagnia. Accendo la luce del cucinino. La lampadina sfarfalla, incerta se
fare il suo dovere oppure abbandonarmi anche lei. Apro la porta del
frigorifero, prendo la bottiglia di vetro e verso l'acqua in una tazza
abbandonata nel secchiaio, ancora imbrattata di caffè o forse di medicine
disciolte. Conficco lo sguardo sul fondo e alla fine decido che posso bere da
li. Tutto d'un fiato, il liquido scende giù, fino in fondo allora stomaco,
dissetandomi per metà. Spengo la luce e torno sul divano. Dall'appartamento di
sopra sento il ticchettio di tacchi femminili. Risate ad intermittenza mi
suggeriscono che più di qualcuno, in quella casa, sta festeggiando l'anno che
verrà. Mi sembra di vedere orecchini dondolare, cravatta bene annodate,
mocassini lucidati. Io e Giacomo continuiamo a scambiarci sguardi. Pare che
entrambi stiamo aspettando che uno dei due faccia la prima mossa per deciderci
a scendere giù. Tra poco più di una decina di minuti il rumore dei tappi da
sughero sarà il più diffuso al mondo. Urla gioiose abbracceranno amici, mariti
e parenti. Faccio un cenno a Giacomo e lui capisce. É giunto il nostro momento,
quello che nessuna gioia comandata rovinerà. Apro il portone, infilo la chiave
nella toppa e glielo dico.
"Andiamo, Giacomo. Andiamo a fare un giro".
La felicità brilla nei suoi occhi. Se solo potesse
parlare. Forse un giorno lo farà. I miracoli esistono, ne sono certo. Il freddo
della tromba delle scale non ci fa demordere. Lo guardo, lui contraccambia.
Premo il pulsante dell'ascensore e si aprono le porte. Vuoto, sembrava non
stesse aspettando che noi. Il trillo che
annuncia il piano terra suona e io incoraggio Giacomo. "Sei felice? Hai
visto che ti porto fuori anche stasera?" Dalla sua carrozzina, mio figlio
mi guarda, mi sorride a bocca aperta ed io capisco che il mio capodanno è il
migliore del mondo. Lo spingo in strada a tutta velocità, proprio come piace a
lui. Le ruote vibrano sul cemento ma noi non abbiamo paura di cadere. Noi, ogni
sera, voliamo assieme, liberi per quei pochi minuti spensierati. Il mio piccolo
bambino cresciuto non mi parla da decenni, ma io capisco tutto ciò che mi dice
nel suo silenzio. Iniziano a scoppiare i fuochi d'artificio in cielo. Fermo la
carrozzina e gli indico il cielo.
"Guarda,Giacomo, guarda lassù"
Mi sorride, mi allunga le braccia al collo e io lo
accolgo come solo io so fare. "Buon anno anche a te, Giacomo"