La recensione di "Herzog incontra Gorbaciov", Werner Herzog e Andre Singer. Nelle sale dal 19 al 22 gennaio
Recensione a cura di Mario Turco
Siamo a casa, e cioè dentro il cinema di Herzog, sempre pieno zeppo di storie che spiegano la Storia meglio della vituperata (da lui) accademia. Durante la prima parte, quella più biografica, il film si lascia perciò volutamente andare ai ricordi del futuro segretario del Partito Comunista più potente del mondo nato, a differenza di tanti suoi compagni burocrati, realmente povero e ai confini dell'impero. L'apertura mentale di Gorbaciov, sembra suggerire il film, deriva da questo fatto, da questo provincialismo che per tutta la vita cercò di recuperare il passo colmando il gap con le alte sfere attraverso l'attenzione agli ultimi e l'esterofilia lontana dall'ortodossia di partito. In questa fase del film abbiamo forse lo scarto più felice, un colpo d'ala herzoghiano che riesce a destabilizzare la visione mettendo in atto un semplice processo d'accumulo. Quando muore Brèžnev la Piazza Rossa di Mosca s'apre con la sua immensità alle celebrazioni funerarie. Ma la stessa solennità viene replicata nel giro di pochi anni a causa della dipartita dei moribondi leader chiamati a dirigere perfino dalla stanza d'ospedale il Paese. E così Herzog in poche sequenze svela la natura rituale del dramma cogliendone perfino il lato beffardo che l'ascesa del più giovane Segretario del Partito Comunista avrebbe dovuto riformare attraverso due politiche fondamentali: la glasnost' e la perestrojka. Il film qui preferisce concentrarsi sui successi esteri di Gorbaciov addebitandogli con chiarezza il disarmo nucleare e l'apertura democratica verso il mondo. La pratica Chernobyl viene invece liquidata con un po' di superficialità perché il racconto completo dei fatti della notte del 26 Aprile 1986 avvenne in realtà ben oltre le dimissioni di Gorbaciov e la caduta dell'URSS.
Anche con la caduta dell'Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche “Herzog incontra Gorbaciov” riesce ad essere più incisivo quando si smarca da un'impossibile funzione storica e accede al particolare rivelatore. Quando Miklós Németh, presidente dell'Ungheria del tempo, ricorda che poco prima della definitiva indipendenza dal regime comunista tagliò di propria iniziativa il filo spinato che divideva il confine tra il suo Paese e l'Austria ma dovette farne ricostruire duecento metri per prestarsi alla foto storica con l'omologo austriaco, in fondo spiega semplicemente il paradosso di una Unione che anche durante la sua caduta non sapeva esimersi dalla sacralità del simbolo. Forse per creare un netto contrasto con questa assurda istituzione il film di Herzog e Singer nel finale si lascia andare quasi (e nel mancato superamento di questo quasi ancora una volta sta la grandezza del regista tedesco) con accento melodrammatico alla commemorazione dell'amata moglie di Gorbaciov, scomparsa prematuramente per la leucemia. Le ultime sequenze si possono riassumere così: Herzog incontra Gorbaciov e gli chiede se ricorda ancora il suo profumo, la sua risata; il politico russo gli risponde con forza di sì e che lui è morto con lei quando il destino gliel'ha portata via. Il Potere viene rivelato per ciò che è: un passatempo, un gioco imperiale che abbatte e distrugge le vite di milioni di uomini ma al quale si rinuncerebbe volentieri per il ritorno dell'amata. Ci voleva Herzog per ricordare come in fondo anche la Storia sia un capriccio dell'Amore. E come ad essere ricorsivo non sia il riarmo nucleare ma quello del rimpianto.