Recensione: La città senza ebrei, di Hugo Bettauer

Titolo: La città senza ebrei
Autore: Hugo Bettauer
Editore: Chiarelettere
Pagine: 192
Anno di pubblicazione: 2020
Prezzo copertina: 15,00 €

Recensione a cura di Mario Turco

1922-2020: Un secolo dopo tutto è cambiato e nulla è cambiato. È l’eterno ritorno dell’errore (orrore) umano: il razzismo come una profezia che si autoavvera sempre, inesorabile e nefasta nonostante il mito delle magnifiche sorti e progressive. Era il 1922 quando Hugo Bettauer scriveva il suo capolavoro “La città senza ebrei”, con l’eloquente sottotitolo di “un romanzo di dopodomani”. Ed è il 2020 quando l’editore Chiarelettere lo riporta all’attenzione del pubblico italiano ricordando come quel dopodomani è purtroppo oggi. L’oggi del nostro “Prima gli italiani”, mutuato passivamente dall' “America First” trumpiano e prima ancora sembrerebbe, semmai credessimo alla possibile cultura letteraria dei sovranisti di questo mondo, dal grido “Fuori gli ebrei” scandito da Schwertfeger nel roboante Parlamento viennese ad inizio romanzo. 


Ad impressionare de “La città senza ebrei” è proprio il fatto che sembra una satira uscita a puntate adesso su qualche giornale progressista, una presa in giro delle sempre più violente richieste di espulsioni di stranieri da nazioni che basano la propria economia su di essi. Come riportato da Marino Freschi nell’Introduzione Una favola viennese già il clima del tempo era abbastanza plumbeo se “il 24 Febbraio 1920 il punto 8 del Programma del Partito nazionalsocialista dei lavoratori tedeschi recitava: Pretendiamo che tutti i non tedeschi che sono immigrati in Germania dal 2 Agosto 1914 siano costretti ad abbandonare immediatamente il Reich”. Bettauer sembra partire proprio da qui per la costruzione della precisissima parodia dei folli sogni pangermanisti di inizio Novecento. Il romanzo immagina infatti che il cancelliere austriaco annunci ad un Parlamento festoso la modifica costituzionale (significativa l'insistenza che, come in Italia, essa debba essere approvata dai due terzi dell'assemblea, ad indicare che correità di tutte le forze politiche) che prevede un bando di espulsione che “non si riferisce solo a ebrei ed ebrei battezzati, ma anche a chi è di discendenza ebrea. Per discendenti ebrei si intendono i figli di matrimoni misti”. La motivazione che lo scrittore attribuisce al personaggio che ripropone, purtroppo non solo fictionalmente, l’ennesimo ricorso storico della diaspora israelita è intrisa di humour yiddish: Schwertfeger riconosce che gli ebrei sono superiori agli austriaci ariani e che la loro competenza nel settore bancario, merceologico e perfino intellettuale è nociva per gli autoctoni che si portano dietro le stigme caratteriali (ingenuità e semplicità) di chi è disceso ancora da poco dalle montagne. Così per far fruttare a pieno le potenzialità dei suoi bianchi (come se gli indo-europei lo fossero davvero) concittadini è meglio allontanare dalle proprie terre una minoranza così produttiva nell'infondata speranza che essa possa germinare nella gente dagli occhi azzurri e i capelli biondi. 


“La città senza ebrei” assume presto i tratti della distopia intelligente facendo della propria narrazione frammentaria una corale e sesquipedale pernacchia teorica a simili precetti nazionalistici. Per far ciò l’autore austriaco limita paradossalmente gli strilli allarmistici per optare invece per un racconto simil-favolistico che pur facendo uso di una leggera ironia dispiega con alacrità le conseguenze di una simile assurda premessa. Soprattutto la cacciata degli ebrei comporta problemi di ordine economico, che sono quelli per cui le dittature nascono e falliscono: gli austriaci non sono mercanti accorti, si fanno fregare sugli ordini, non hanno rapporti di Borsa internazionale. Spassoso su questo ultimo punto il rammarico delle giovani donne viennesi che con i regali elargiti dai loro ammiratori ebrei vivevano alla grande e si potevano permettere di mantenere l'amante. Con la cacciata dei loro danarosi amici alle ragazze non bastano più i misurati cristiani che anche dal punto di vista del sesso difettano di fantasia. Nonostante la struttura in micro-capitoli e la narrazione allargata “La città senza ebrei” elegge a suo protagonista Leo Strakosch, giovane ragazzo ebreo che inventerà un ingegnoso escamotage per restare a Vienna dalla sua amata Lotte. L'individuazione dell'eroe che con la sua giusta spregiudicatezza riesce ad ottenere il ritiro dello squinternato bando di espulsione fa pendere il romanzo ancor di più verso una sorta di edificante “operetta morale” di stampo squisitamente illuminista che non avrebbe sfigurato vicino ai classici di Voltaire. “La città senza ebrei” è quindi un testo fondamentale ancor più oggi, dove si è improvvidamente tornati a scrivere sui citofoni frasi antisemite di odio ingiustificato. Se “la Storia non è magistra di niente che ci riguardi” speriamo che l'unione con l'alta letteratura possa invece riuscire a far ricordare alla gente che il diverso non è mai il nemico.

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