Antonella Lattanzi con il romanzo “Cose che non si raccontano” vince la VII edizione del Premio Wondy per la letteratura resiliente

È Antonella Lattanzi con il romanzo “Cose che non si raccontano” (Einaudi), la vincitrice della settima edizione del Premio Wondy di letteratura resiliente, annunciato ieri sera al Teatro Manzoni di Milano nel corso della tradizionale serata di festa tra parole e musica che accompagna la premiazione, presentata da Camila Raznovich e Alessandra Tedesco, con la partecipazione di numerosi ospiti tra i quali: Clara Soccini, il pianista Leo Einaudi, la Piccola Orchestra dei Popoli, e gli attori Valerio Aprea, Vinicio Marchioni, Marta Gastini e Pia Lanciotti. Laura Imai Messina con il libro "L’isola dei battiti del cuore" (PIEMME) è invece la vincitrice decretata dalla giuria popolare. È stata inoltre assegnata una menzione speciale a Claudia Grande per il libro “Bim Bum Bam Ketamina” (Il Saggiatore).


La Giuria Tecnica, presieduta da Gaia Tortora e composta da Marco Balzano, Federico Bertoni, Alessandra Carati, Paola Cereda, Cristina Di Canio, Luca Dini, Emanuele Nenna, Roberta Scorranese e Gianni Turchetta, si è così espressa nella motivazione: “Antonella Lattanzi racconta, con grande coraggio e feroce determinazione, la storia privatissima del tentativo di avere un figlio a trentotto anni tramite una feconda-zione assistita. Si può dire che tutto va nel modo peggiore: Antonella resta incinta di tre bambine e deve procedere a quanto viene chiamato eufemisticamente una “riduzione”, fermando il cuore di una di loro: ma muoiono tutt’e tre. Cose che non si raccontano è una narrazione potente, concentrata fino all’ossessione, che coinvolge e sconvolge perché capace di evitare ogni cedimento al patetismo, costruendo uno sguardo e una voce carichi di sofferenza, ma negati a ogni tentazione di effusività. La resilienza agisce qui ad ogni istante, anche quando è in agguato la disperazione. Lattanzi sceglie la strada di una narrazione francamente autobiografica, con lunghi tratti di diarismo. La semplicità apparente dell’intreccio non deve però ingannare: chiave di volta del libro è infatti un montaggio rigoroso, che genera un’implacabile progressione narrativa, inchiodando il lettore fino alla fine. L’autrice si avvale di uno stile asciutto, teso e pure vicino alla colloquialità. Il suo autobiografismo, quasi senza filtro, riesce a mettere in scena drammi condivisi da tante donne, penetrando dentro un’inaudita intimità dell’anima e del corpo, e mettendo in gioco il senso stesso dello scrivere: sfida a un dolore intollerabile, che si trasforma nella ragione stessa per continuare a vivere.”

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