La recensione de "Il cavaliere inesistente", di Italo Calvino, per la regia di Tommaso Capodanno in scena al Teatro India fino al 1 Dicembre
Recensione a cura di Mario Turco
Una scelta lungimirante che, oltre a replicare uno degli spettacoli più apprezzati dal pubblico capitolino l'anno scorso, riesce ad intercettare la sensibilità calviniana verso le donne (“Nella mia vita ho incontrato donne di grande forza. Non potrei vivere senza una donna al mio fianco. Sono solo un pezzo d'un essere bicefalo e bisessuato") grazie alla principale scelta di drammaturgia che vede sul palco la presenza esclusiva di quattro straordinarie attrici: Francesca Astrei, Maria Chiara Bisceglia, Evelina Rosselli e Giulia Sucapane. Capitolo finale della trilogia araldica conosciuta come "I nostri antenati", Il cavaliere inesistente di Capodanno adatta in maniera molto fedele il complesso romanzo di partenza, espungendone soltanto poche avventure. Il proemio dell'opera si apre su una palustre scenografia (curata da Alessandra Solimene, forse fin troppo immobile rispetto invece ad un testo che si "muove" continuamente) infestata dalla nebbia in cui svettano soltanto arbusti, erbacce e un paio di cubi. Un canto di donna, fatto più di gola che di voce, rompe il silenzio di quello che appare un campo di battaglia abbandonato o una stradina di campagna: entrano infatti in scena quattro giovani fanciulle vestite di nero che cominciano a rimbalzarsi la storia principale, ovvero quella di Agilulfo Emo Bertrandino dei Guildiverni e degli Altri di Corbentraz e Sura, cavaliere di Selimpia Citeriore e Fez. Un cavaliere però, che come ammette a più riprese egli stesso - “Io non esisto, sire” - ha solo un’armatura bianca( fantastico l’elenco puntuale di tutti i gravosi ornamenti) ma non un corpo dentro. Fatto muovere sul palco attraverso un ingegnoso fantoccio, questa personificazione dei rigidi codici della cavalleria nel corso delle sue avventure arriverà persino a rimpiangere i corpi straziati dei cavalieri di Carlomagno: “O morto, tu hai qualcosa che io non ho e mai ebbi: la carcassa”.
Il cavaliere inesistente nelle sue quasi due ore di durata riesce a portare sul palco con grande verve l’estro della prosa calviniana, fatta di invenzioni arditissime come Agilulfo, naturalmente, ma anche lo straordinario matto Gurdulù che si crede a seconda delle occasioni anatra o zuppa, lo scocciato Carlomagno, la faccenda della paternità dell’intero Sacro Ordine dei Cavalieri del Graal. Meno impattanti, in un continuo cambio di toni e registri linguistici che in ogni caso segue l’andamento del romanzo, invece la sotto-storia e le riflessioni meta-narrative di Suor Teresa che riflettono sì la crisi autoriale e personale (“La vita è un rotolarsi tra letti e bare”) di Calvino al momento della stesura ma forse andavano accorciate o riproposte in una maniera più originale rispetto alla solita declamazione enfatica e seriosa. La pièce riesce invece con molta più facilità e orecchiabilità ad omaggiare la stramba e ironica rivisitazione delle chanson de geste compiuta nel suo capolavoro dallo scrittore, facendo calcare alle sue attrici una recitazione che con felici esiti si rifà sia al teatro comico italiano che al vaudeville francese. Ecco che la messa in scena della ragionatissima follia di Bradamante, Sofronia e Torrismondo arriva a regalarci una rampante rappresentazione senza tempo e senza spazio, una città invisibile di poesia dentro un dimezzato palco ma pieno di cosmicomiche avventure