La recensione de "Il caso Jekyll", di Sergio Rubini in scena al Teatro Quirino di Roma fino al 2 febbraio
Recensione a cura di Mario Turco
Prodotto dalla Fondazione Teatro Di Napoli – Teatro Bellini, Marche Teatro, Teatro Stabile di Bolzano, Il caso Jekyll vuole quindi dimostrare come la "stranezza" individuata dallo scrittore scozzese sia in realtà ascrivibile ad una più semplice e logicamente analizzabile scissione psichica del suo protagonista. In questa sua volontà molto contemporanea di demistificare il fantastico con cui gli scrittori del recente passato avvolgevano il racconto di nevrosi varie, Rubini ha però l'intuizione di mantenere ed anzi rilanciare le forme gotiche in cui si dipanava il racconto originale. Già nel prologo con le tende del palcoscenico ancora tirate, l'attore e regista pugliese sceglie infatti di mostrarsi come “author in fabula” presentando dal vivo il ritrovamento del manoscritto originale vergato dallo sfortunato medico e, allo stesso tempo, omaggiando così anche una lunga tradizione letteraria italiana (come ben sanno i lettori scolastici e, speriamo, anche quelli non). Quando comincia lo spettacolo siamo introdotti nella brumosa Londra - bella ma monodimensionale la scenografia di Lucia Imperato - , più precisamente davanti la porta di un edificio abbandonato dove il signor Enfield sta raccontando al cugino, l'avvocato Utterson (Geno Diana) del misfatto cui ha assistito e che riguarda il crudele signor Hyde. Quando l’aneddoto tocca l’amico e cliente – Utterson ne è il custode testamentario –, quel “modello di correttezza” che risponde al nome di dottor Jekyll, l’avvocato comincia un’indagine che lo porterà a scoprire un mistero terribile, in grado di aprire uno squarcio putrendo sugli abissi dell’animo umano… Il caso Jekyll è, difatti, una rappresentazione che dimostra di credere nel potere dell’affabulazione teatrale/letteraria facendo ricorso ad alcune delle maggiori e classiche tecniche di racconto che è possibile trovare su un palco da secoli. Rubini infatti dà spazio ad una scena molto verbosa, inframezzata sia dalle sue frequenti letture di porzioni di testo che portano avanti la storia, sia dall’insistito ricorso ad un apparato sonoro che accompagna dinamicamente (la presenza visibile del rumorista sul palco) l’azione. Ma la regia dell’artista pugliese si limita a riempire di parole e sovraimpressioni la conosciuta discesa negli inferi del Doppio, lasciando l’Hyde e lo Jekyll interpretati con grande gusto impressionistico da Daniele Russo schiavi della loro gabbia freudiana/junghiana. Così anche il capovolgimento più interessante dello spettacolo – e cioè che sia il Buono ad essere lo specchio riflesso del Male – non riesce mai a suonare come una lugubre ed evocativa minaccia quanto piuttosto a rintronare, perlopiù alla maniera di un audiolibro manierato, come un lungo sermone sulla caducità della morale borghese.