La recensione di "FLUID", lo spettacolo di Ilaria Migliacco in scena al Teatro Studio Uno fino al 23 Febbraio

Recensione a cura di Mario Turco

Non ce ne voglia il compianto sociologo Bauman ma la liquidità della società attuale dove “la convinzione che il cambiamento è l'unica cosa permanente e che l'incertezza è l'unica certezza” in certi ambiti è conquista e non degenerazione. Nell'ambito dei moderni sconvolgimenti di genere ad esempio, il poter liberamente essere quel che si vuole senza obbedire alle costrizioni fisiologiche e, peggio ancora, culturali rappresenta la più bella apertura verso l'Altro di questi anni. Coglie questo esprit du temps Fluid, progetto di Franca Battaglia Teatro nato dal percorso laboratoriale permanente tenuto dalla regista Ilaria Migliaccio ed in scena al Teatro Studio Uno di Roma fino al 23 Febbraio


Fluid è un agglomerato di persone con un’identità di genere ibrida, riunitesi sotto lo stesso tetto (occupato) e che cercano di sfuggire non solo alle vecchie classificazioni terminologiche ma soprattutto ad un meteorite che minaccia di cadergli in testa. Lo spunto apocalittico è solo un pretesto per parlare di persone che lottano contro situazioni catastrofiche da sempre, o meglio, da quando hanno scelto di non nascondere più alla società la loro vera identità. Che nel caso del genere sessuale, quando non catalogabile in precise denominazioni, si attira sempre gli odi più feroci. “Me puoi chiamà frocio, checca, culattone, recchione ma anche Carletta, almeno me giro”: dice l’anziano travestito nella battuta più divertente dello spettacolo mostrando come con molta forza e pazienza sia possibile abbattere, con la noncuranza strafottente del genio, la cattiveria di cui si viene investiti. Ma non tutti i 7 personaggi di Fluid riescono a superare quel muro di merda: Enzino/Enzetto è l’omosessuale che è stato costretto a diventare bipolare proprio per proteggersi dalle malelingue e di cui, nella sua metà più coatta, continua a tener conto assecondandone i pregiudizi. 


“Fluid” ha il merito di trattare l'incendiaria materia con un approccio ironico mai piagnucoloso, soprattutto per merito di questi due personaggi ai quali viene deputato il compito di sdrammatizzare vicende che hanno invece un vissuto molto doloroso. Come riportato nelle note di regia alcune sono vere e altre no ma non importa perché tutti i personaggi di Fluid, persino la cyborg Elea che si lamenta perché la gente vuole sapere da lei se “ha una vagina cibernetica o un pene missilistico”, hanno sperimentato sulla propria pelle il rifiuto della società. Anche quello familiare, come occorso allo strabordante Federico Saverio, se non proprio il “gay più figo del mondo” quantomeno quello con la voce più baritonale, che mostra come la spavalderia che lo contraddistingue sia seguita alla rottura definitiva con il padre. Non tutti i personaggi sono riusciti in Fluid (di Marta, la donna resiliente o della stessa Elea, non si avverte l’urgenza narrativa) ma il testo riesce a comunicare con molta generosità le tematiche di cui si fa portavoce. Merito soprattutto di soluzioni scenografiche sempre diverse e dal forte impatto estetico, un grumo (per usare un bell’aggettivo usato sovente e con cognizione poetica) di colori e oggetti sparsi con allegria sul palco durante la piece. Quando i 7 personaggi parlano dalla propria finestra con gli spettatori dei loro vissuti o quando guardano tutti insieme sulla tv le (finte) interviste rilasciate alla tv locale, l’empatia si propaga anche nella piccola platea del Teatro Studio Uno. Perché siamo tutti fluidi, in attesa perenne del meteorite di stereotipi che ci colpisca sulla testa e uccida la nostra libertà d’espressione. Sperando che come nel finale di “Fluid” un giorno riusciremo davvero a scampare da questo cataclisma.

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