La recensione de "Nel nome della terra", di Edouard Bergeon distribuito da Movies Inspired dal 9 Luglio

Recensione a cura di Mario Turco

Abbandonare la città per rifugiarsi in campagna, comprare un piccolo appezzamento di terra per vivere dei suoi prodotti è il sogno che prima o poi ogni abitante di città compie. Un sogno ammantato di romanticheria bucolica perché in realtà anche il lavoro del contadino è stato contaminato dalle pratiche industriali. Lo ricorda con violentissima ed allo stesso tempo tenera forza il film “Nel nome della terra”, diretto da Édouard Bergeon e prodotto da Nord-Ouest Films, in uscita nei cinema giovedì 9 luglio 2020 distribuito da Movies Inspired. Il film è il primo lungometraggio di finzione di Edouard Bergeon, regista in precedenza di reportage e documentari dove l’agricoltura e il mondo dei coltivatori erano sempre presenti e centrali. “Nel nome della terra” ha ottenuto 3 candidature ai César 2019 e grande successo di pubblico in Francia, soprattutto in provincia considerata che essa è la Nazione europea con la più alta percentuale di terre coltivate. La sceneggiatura scritta da Bergeon, Bruno Ulmer ed Emmanuel Courco parte dalla drammatica esperienza personale dello stesso regista: dopo avverse vicende nella gestione dell'azienda agricola di sua proprietà “in piena depressione, mio padre, stordito dagli antidepressivi, si toglie la vita con i pesticidi chiedendo il mio aiuto in extremis. Avevo solo 16 anni, troppo tardi”.


La rielaborazione del lutto a distanza di vent'anni riesce miracolosamente a conservare sia l'urgenza della denuncia delle pressioni a cui sono sottoposti i contadini per non soccombere in un mercato oramai deregolamentato sia la necessaria distanza emotiva da una vicenda così tragica. Ne “Nel nome della terra” il protagonista è Pierre Jarjeau, interpretato efficacemente da Guillame Canet, che nel 1979 a 25 anni torna dal Wyoming per trovare la sua fidanzata, Claire, e comprare la fattoria di famiglia. Comprare, non ereditare, prima dissonanza della vita dello sfortunato ragazzo che ha infatti un rapporto conflittuale col padre. I frequenti dissidi con il genitore ancorato a modi di produzione novecenteschi, impossibili da attuare nel selvaggio ammodernamento imposto da una concorrenza globale, sono uno dei tanti motivi della sua crisi. Il Grand Bois, la fattoria dei Jarjeau, sembra inizialmente poter continuare ad esistere con la sua conduzione familiare. Ma il piano di rientro dal prestito per l'acquisizione in 12 anni e i prezzi imposti dalla GDO costringono da subito il contadino ad un allargamento delle proprie fonti di sostentamento, allettato anche dall'apparente facilità degli aiuti comunitari e dalle sirene dei gruppi agroindustriali, pronti da subito a farsi da garante con le banche. Il solo pascolo delle capre rimane un introito stagionale e per ammortizzare i costi Pierre sceglie quindi di buttarsi sui più redditizi polli, stipati in batterie e drogati con vitamine per farli crescere il più velocemente possibile. 


“I debiti si accumulano, impazzano i prodotti tossici a cui i contadini avevano creduto ignari, la mondializzazione fissa prezzi e coltivazioni, dettando legge”- avverte lo stesso regista in un'intervista. Su questo versante però, il film sceglie di non cadere mai nel tono polemico lasciando che sia la piccola epica della caduta di Pierre a mostrare allo spettatore con pochi ma decisivi tocchi le forzature di un'agricoltura che di biologico ha solo la crosta esterna. “Nel nome della terra”, forse a causa della sua natura autobiografica, è più interessato all'esplorazione a tutto tondo del fallimento del suo protagonista, certamente simbolo di una classe sociale in crescente difficoltà ma anche padre e marito tendente alla depressione. Il suo è un ritratto di solitudine moderna, di una progressiva discesa verso gli inferi che nemmeno una bella famiglia può riuscire ad evitare (una nota d'encomio merita Anthony Bajon nei panni del figlio Thomas). Bergeon utilizza i totali d'ispirazione pittorica, Cezanne e Van Gogh su tutti, per sottolineare la responsabilità che grava sulle spalle del personaggio. Una storia su un singolo uomo che però nel finale, con grande e riuscita audacia, viene ribaltata e fatta diventare universale. Come avverte con straziante sintesi la didascalia che chiude il film: “Ogni due giorni in Francia un contadino si suicida”. Ancora una volta la lotta individuale deve insomma diventare di classe. A partire proprio dalle campagne.

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