La recensione del film "A white, white day - Segreti nella nebbia", di Hlynur Pálmason. Nelle sale dal 28 Ottobre

Recensione a cura di Mario Turco

E se il tradimento del coniuge fosse collegato non all'elemento del fuoco, che tutto brucia e tutto estirpa, ma al ghiaccio che congela l'atto fedifrago in un permafrost psicologico impossibile da sciogliere? Anche il ghiaccio, d'altronde, uccide. Con la scoperta della relazione clandestina, il dubbio avvolge come nebbia opprimente il marito sopravvissuto alla morte della moglie e alla notizia della falsità del suo matrimonio sopraggiunge, fatidico e amletico, il dubbio: mi ha mai amato? “A white, white day – Segreti nella nebbia”, scritto e diretto da Hlynur Pálmason, racconta la storia di Ingimundur (la star islandese Ingvar Eggert Sigurðsson), capo di polizia in congedo che perde la moglie in un fantasmatico incidente stradale. Quando viene ritrovata una scatola con alcuni effetti personali della donna, il protagonista inizia a sospettare che lei lo tradisse con un uomo del posto. Allo shock della perdita ancora lacerante si aggiunge quello altrettanto doloroso dell'ipocrisia di un matrimonio menzognero. Lentamente la ricerca della verità diventa ossessione fino a far impazzire la bussola morale di Ingimundur che smette di indicare la rettitudine e la compostezza del lutto a favore di una crisi di rapporti che coinvolge perfino l'amata nipote Salka (la bambina prodigio Ída Mekkín Hlynsdóttir) ed esonda in una resa dei conti notturna con l'amante che minaccia terribilmente di sfociare nell'omicidio. 


A white, white day – Segreti nella nebbia esce nelle sale dal 28 Ottobre distribuito da Trent Film, dopo aver vinto nel lontano 2019 la 37ª edizione del Torino Film Festival. Il secondo film del regista Hlynur Pálmason è un thriller esistenzialista che mimando nella prima parte la sua adesione ai codici del genere – la scala degli indizi del tradimento è composta di appena tre pioli – vuole in realtà essere un'indagine psicologica sui meccanismi di un lutto che proprio nel mezzo della sua faticosa elaborazione si trovano gravati dalla scoperta della falsa natura dell'oggetto d'amore. La glaciale messa in atto di questo fallimento, di un dolore cioè allo stesso tempo raddoppiato e dimezzato ma con cui si deve continuare a convivere cercando di salvare qualcosa che permetta al protagonista di trovare un senso (i continui lavori domestici svolti in totale autarchia per una casa che poi non intende nemmeno abitare e lasciare alla figlia) ai pochi anni che rimangono da vivere, è amplificata dal plumbeo scenario in cui sono immerse le vicende. Come se le ancestrali terre d'Islanda, coi suoi ghiacci e le sue nebbie perenni, determinassero il carattere dei suoi sparuti abitanti, emozionalmente duri come le rocce che attraversano le strade e (forse) ne determinano la morte. 


In questo senso Hlynur Pálmason si allinea agli stilemi del thriller nordico facendo in modo (grazie anche alle dure musiche di Edmund Finnis) che sia il paesaggio piuttosto che le poche parole dette dai protagonisti a suggerire le difficili dinamiche relazionali tra i personaggi. Anche se la sua regia si lambicca in qualche formalismo di troppo – il jump-cut iniziale della casa, la carrellata all'indietro del finale nel tunnel – ha il merito di saper tenere sotto controllo il contenuto melodrammatico del soggetto lasciandolo cortocircuitare nell'impossibilità di una vendetta che più che postuma è semplicemente ridicola. Forse che uccidendo chi si “scopava tua moglie in auto, a scuola, dove potevamo” si può cancellare la sconfitta? Non resta invece che cullarsi nel ricordo di una dolce e sexy danza erotica del suo giovane corpo e liberarsi di quei momenti, fallaci o genuini che fossero, con un urlo liberatorio. Sarà pure un bianco, bianco giorno ma in Islanda non si può chiedere di più

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