La recensione del film "Takeaway", di Renzo Carbonera al cinema dal 20 Gennaio

Recensione a cura di Mario Turco

Il cinema è ancora dappertutto, basta saperlo scovare negli interstizi del reale, adattarlo alle forme codificate della narrazione audiovisuale e tentare di farne grimaldello socio/psico/politico. Sembra facile, e lo è ancora di più di questa striminzita ricetta nel caso di “Takeaway”, di Renzo Carbonera nelle sale dal 20 Gennaio distribuito da Fandango. Perché il secondo film del regista friuliano, dopo l'interessante ed applaudito Resina, e passato con successo all'ultima Festa del Cinema di Roma nella sezione Alice nella città, riesce con grande naturalezza a portare sulle proprie magre spalle e su quella della sua ancor più esile protagonista il peso della tara principale dello sport. 


Un film politico mascherato da thriller nordico, girato sulle montagne del Terminillo in mesi così nebbiosi che sembra ad ogni angolo possa spalancarsi ad un tratto un fiordo, e che muove ostinatamente, quasi ottusamente – il tema di fondo ad un certo punto è così ossessivo da fagocitare storia e personaggi – verso il proprio fine: la denuncia del doping nell'atletica. Maria (Carlotta Antonelli) è una giovane marciatrice che riprende a marciare dopo un lungo stop. L'infortunio le ha tolto certezze sia fisiche che intellettive: si avvicina (presumibilmente) ai 25 anni e deve decidere se fare dello sport la sua professione o restare un'amatrice di talento salutata con affetto dal piccolo paese ed idolatrata dai genitori. Il suo compagno Johnny (Libero De Rienzo), un allenatore radiato anni prima per aver fatto utilizzare ai suoi atleti sostanze dopanti, la convince ad assumere dei prodotti chimici realizzati clandestinamente che riescono a sfuggire alle maglie dell'antidoping e le permetteranno di non sentire la fatica che il formidabile “tiro” della sua tecnica le procura. Ma i continui malessere fisici del suo corpo, renitente all'illecito, e la paura morale di essere scoperta le provocano attacchi di ansia che progressivamente la faranno dubitare della tossica cura intrapresa. 


“Takeaway” gioca sin dal suo penetrante titolo con la pervasività del doping che dopo aver infettato le alte sfere dell'atletica si è allargato anche al mondo semi-professionistico e dilettantistico. La facilità con cui Johnny, pur non potendosi avvicinare agli impianti e alle piste di marcia, riesce a procurarsi anfetamine ed anabolizzanti proibiti fa riflettere su come questo supermercato dell'illegalità sia istituzionalmente, se non tollerato quantomeno perseguito seriamente e di fatto resti aperto a chiunque voglia approfittarne. Proprio chiunque: Carbonera non punta il dito in maniera facile contro criminali e testosteronici esaltati ma rivolge la sua macchina da presa verso la pallida Maria, semplicemente desiderosa di dare un senso ad una carriera fin lì avara di soddisfazioni. Nella banalità del male chimico, nella mancata accettazione dei propri limiti, nelle aspettative familiari e sociali (l'anatema di Tom ha il solo difetto di essere troppo scritto e didascalico), si cela la tentazione e la conseguente scelta di cedere al “così fan tutti”. La scritta in sovraimpressione del finale ci racconta che, secondo la Wada, l'agenzia internazionale antidoping, oggi una percentuale tra il 20 e il 24% degli atleti non professionisti fa regolarmente uso di sostanze dopanti, come steroidi e anabolizzanti, senza alcun controllo medico, e che il 70% è in grado di doparsi o l'abbia fatto almeno una volta nella vita. In “Takeaway” è il faccione barbuto ed accigliato del compianto Libero De Rienzo, a cui il film è dedicato, a farsi carico di questa dimensione oscura dello sport. Il suo Johnny non si pone mai domande etiche ed agita la siringa con l'inevitabilità fatalistica del preparatore che sa che “l’unica morale è il podio”. L'unica fatica a cui sottopone le cosce dell'allieva/amante Maria è quella del dosaggio, l'unico tempo che accetta è quello della gara. Per lui l'abbandono non esiste: finché c'è qualcosa da poter iniettare alla cavia/madre dei suoi figli – sull'ormone delle donne incinte che rende superfluo quello sintetico il film ha una grande trovata che testimonia il suo impegno documentaristico – si resta in pista.

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