La recensione dello spettacolo "Darwin inconsolabile (un pezzo per anime in pena)", al teatro India di Roma fino al 23 Gennaio
Recensione a cura di Mario Turco
In “Darwin inconsolabile (un pezzo per anime in pena)” ancora una volta la famiglia è il centro nevralgico delle nuove vecchie ossessioni di Calamaro. C'è ad esempio la ripresa tematica della difficoltà per figli e genitori di essere tali, un covo di aspettative non eseguite i primi - l'artistoide Giulia, più impegnata a non fare nulla per i sofferenti nonostante il privilegio borghese che ad aiutarli - e una caverna di modelli mal riposti i secondi - la madre artista visuale che filma le reazioni dei figli all'annuncio della sua morte con l'intento di musealizzarle. C'è, proseguendo, la stessa sfiducia nel genere umano che non è in grado nemmeno di generare una grande apocalisse annientatrice ma di morire d'inedia sotto il terribile giogo delle piccole apocalissi (ambientale, finanziaria) dell'ultimo secolo. E c'è un'inaspettata verve comica, forse aiutata dall'incontro con i quattro formidabili interpreti della pièce ed in particolare con quel Riccardo Goretti capace da subito di strappare grasse risate al pubblico scimmiottando la vezzosa pronuncia di Thomas Bernhard fatta dall'annunciatrice pubblicitaria del circuito Teatro di Roma. Forse è proprio questa decisa sterzata verso gli stilemi della commedia dell'arte a risultare alla fine stancante, con le sue reiterazioni, i suoi sensatissimi non-sense e perfino certe cadute nel cabaret, più specificatamente nel pezzo della filosofia amazzone spiegata in un proto-portoghese che ad un certo viene fatto coincidere, come nelle barzellette che non fanno ridere, col genovese. Ma si tratta di sbandate di tono che comunque non pregiudicano la riuscita dell'opera, molto più centrata quando mette alla berlina i cangianti miti culturali dei progressisti italiani. A cominciare dalla dimensione solipsistica dell'anziana performer – una Marina Abramovic che fosse nata in Italia avrebbe sicuramente le fattezze minute e la tiepida voce dell'attrice Maria Grazia Sughi –, fra le arti più ombelicali degli ultimi anni fino alle chiacchiere antispeciste ed intra-specie e alle sensibilità ecologiche dei tre figli, non a caso dichiarate tra gli scaffali di quella “catastrofe” che è la Conad della scena iniziale o sul letto di verdure marce simil-Arcimboldo (e qui si ringrazia, come scritto poco sopra, la propria scarsa cultura scolastica che permette di cogliere la finezza di una battuta appena sussurrata, e la sensibilità della scrittrice che pone la giusta fiducia nel pubblico).
Della tensione lirica dei precedenti lavori, Calamaro conserva alcune tracce – il fallimento dei tre figli come maestro elementare, ostetrica e curatrice degli artefatti materni – che permettono mai alla risata di giungere alla catarsi liberatoria. Non ci può essere infatti bugia nel manoscritto originale di Charles Darwin consegnato da Maria Grazia a Simona come non può trovarsi nella teoria evoluzionistica del biologo britannico perché esso, come nel metodo scientifico, era il tentativo sperimentale di una madre sessantottina di risolvere la crisi di una bambina spaurita di fronte al celebre elefante di Chernobyl. Se nemmeno il disastro nucleare ha saputo porre fine una volta per tutte alla nostra esistenza, per sparire davvero dalle scene della Storia bisogna accettare di lasciarsi oscurare lentamente accompagnati dalla tenera confusione di chi ha provato a modo suo a starci vicino.