NON E' VERO MA CI CREDO al Teatro Quirino (Roma) dal 29 ottobre al 10 novembre

Comunicato Stampa
SICILIA TEATRO
Sebastiano Lo Monaco, Lelia Mangano De Filippo
NON È VERO MA CI CREDO
di Peppino De Filippo
con Alfonso Liguori
scene e costumi Alida Cappellini e Giovanni Licheri
luci Luigi Ascione
regia Michele Mirabella

Note dell’Autore
Fateci caso. In questa commedia due personaggi indossano un nome che è tutto un programma. Un programma di rinvii simbolici, di allusioni onomastiche: Malvurio Belisario e Sammaria Alberto. Messi così, come nei registri scolastici, col cognome prima, i due ostentano una farsesca denominazione che invia al male, nel caso di Belisario, alla iattura, alla cupa profezia che si avvinghia a quella lettera u che avvita il finale “rio”, cattivo. Appunto.

E, c’è, poi, quel soave Sammaria chiesastico che sembra attivare un Rosario di benedizioni, una novena di fortune irrorate da oscuri voleri superiori. Il commendatore Gervasio Savastano è tormentato dalla superstizione; i suoi affari non vanno bene, arrancano faticosamente e lui sospetta che la colpa sia di un suo impiegato, Belisario Malvurio, cui attribuisce un influsso malefico, sarebbe, insomma un poco iettatore. Anche in famiglia ci sono problemi: sua figlia Rosina si è innamorata di un giovane impiegato, che il commendatore ritiene non all'altezza del rango borghese, peraltro, della ragazza. All'improvviso, però, la fortuna sembra ricordarsi del commendator Savastano. Nell’azienda capita un giovane, Alberto Sammaria e, con il suo arrivo, gli affari cominciano di colpo ad andar bene. Anche la figlia del commendatore sembra aver ritrovato la serenità e il giovane di cui era perdutamente innamorata è diventato un lontano ricordo. Il fatto è che il novizio aziendale ha la gobba, una magnifica gobba beneaugurante, una gibbosità portafortuna, seconda la antichissima superstizione diffusa in tutta l’aerea mediterranea. Crudele per il titolare che la sopporta, costretto a subire il soverchio di toccamenti casuali, di carezze furtive, di occhiate sorridenti e ammiccanti alla sua deformità. Chi ricorda i lamenti di Rigoletto buffone di corte, che sopporta l’onere della sua tabe sa di che cosa parlerebbe Sammaria se fosse libero di farlo. Ma non lo è e deve compiacersi della sordida felicità del datore di lavoro. Gli affari, infatti, vanno a gonfie vele. Tutto sembra filare liscio, ma il diavolo ci mette lo zampino e il diavolo di queste cose si occupa da tempi remotissimi: Alberto Sammaria confessa al commendatore di essersi innamorato di Rosina, e per questo motivo si sente costretto a dare le dimissioni. Il commendatore disperato, ma troverà una soluzione: convincerà sua figlia a sposare Sammaria. Dopo qualche traccheggiamento, la ragazza si arrende; ma un incubo turba i sogni del commendatore: che i suoi nipotini ereditino il difetto fisico di Sammaria. Il matrimonio si celebra, ma il commendatore non riesce a liberarsi dei suoi timori e avverte i giovani che è sua intenzione di invalidare le nozze. Il lieto fine sorprendente non può mancare e ne deve pagare il comico e grottesco fio il Savastano che scoprirà di essere stato raggirato: Sammaria non è altri che proprio il giovane di cui Rosina era sempre stata innamorata e la gobba era solo un artificio per consentirgli di entrare nelle grazie del futuro suocero gabbato dalla gobba come contrappasso giudizioso per punirlo della sua superstizione. Ma l’autore ammicca, il grande Peppino occhieggia e sorride amaramente, ma sorride: tira i fili del pupo commendatore che cede all'amore dei due giovani, anche perché, pure se non è gobbo, Sammaria porta bene! Di nostro ci mettiamo che Malvurio non portava male. Anche questo pupo vuole rispetto. Soprattutto in palcoscenico. Quanto a noi, muoviamo i pupi con amore perche vivano il loro tempo sulla scena con il compito appassionante di fare un mestiere bellissimo: il teatro. In questo spettacolo si tende a recuperarne i segreti intramontabili, dalla Commedia dell’arte, all’Arte della Commedia. E poniamo la nostra scena in Italia, ovviamente, in quegli ultimi anni cinquanta che furono la vigilia della prosperità del Paese, in quegli indimenticabili anni in cui essere scanzonati non voleva per forza dire essere scostumati. La sola nostalgia potrà scaturire da questo, ma fermo resta l’intento di ridere dell’ignoranza e delle superstizioni sopportando l’urgenza della scaramanzia e ricordando il filosofo che, pazientemente sornione avverte: “Non è vero, ma ci credo”. MICHELE MIRABELLA

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