Recensione: Spider, di David Cronenberg. In onda stasera su Iris

Recensione a cura di Mario Turco

Se appartenete ancora a quella tribù riottosa nei confronti della modernità che rifiuta la dittatura delle serie tv e dei cataloghi Netflix, stasera sintonizzatevi su Iris alle 23:46 per guardare il film “Spider”, di David Cronenberg. Opera del 2002 che segna apparentemente una frattura all’interno di una filmografia molto compatta, dato che per la prima volta non lo vede nei panni di sceneggiatore, essa è in realtà una delle opere più teoriche della più recente produzione del regista canadese. La sceneggiatura di Patrick McGrath, autore
anche dell’omonimo romanzo da cui è tratto il libro, s’acconcia molto bene alle tematiche esplorate da Cronenberg nella sua carriera filmica lunga ormai più di un quarantennio. Il tema della malattia stavolta è declinato in maniera squisitamente psicologica lasciando che la macchina da presa descriva le suppurazioni e gli squarci della mente piuttosto che del corpo. 

Il protagonista del film Denis Cleg, interpretato da un Ralph Fiennes talmente prono al personaggio da rinunciare a qualsiasi tic attoriale a favore di una catatonia facciale molto più congeniale, è mostrato subito nella sua follia senza alcun infingimento. Dopo l’uscita dall’ospedale psichiatrico riesce a malapena a trovare la casa di recupero che dovrà accoglierlo borbottando frasi dove si stenta a trovare un nesso logico. Cronenberg lo presenta con un taglio da entomologo, calandolo nel contesto asettico della periferia londinese tutta grigiume ed enormi gasometri. Anche gli interni, fotografati splendidamente dal collaboratore di sempre Peter Suschitzky, sono tagliati da una luce opprimente che sottolinea la rigida geometria spersonalizzante di spazi che hanno proprio l’obiettivo di esaltare la povera funzionalità degli ambienti e, con una specie di correlato oggettivo molto alienante, delle persone che li abitano. 

“Spider” racconta il tentativo impossibile da parte dell’omonimo uomo protagonista delle vicende di riannodare i fili della sua psiche stravolta. Cronenberg illude lo spettatore per tre quarti di film facendogli credere che dietro quel rimestio mnemonico sia comunque presente una traccia lineare, un principio di causa-effetto che riesca a spiegarne in maniera clinica il disordine, un’origine del male diagnosticabile e perciò curabile. Noi spettatori seguiamo le vicende con gli occhi del bambino taciturno e contemporaneamente dell’adulto dislessico attraverso una messinscena glacialmente iperrealistica. Impossibile quindi non formulare ipotesi di studio, impossibile non veder confermate le nostre teorie dato che è proprio il regista canadese che sembra dar adito a questa specie di determinismo sociale. Insomma, l’individuo di un determinato ambiente corrotto soccombe sempre di fronte alle soverchianti forze che vogliono l’annichilimento della sua sensibilità così fuori contesto. Ma, e qui sta il maggior elemento caratterizzante della poetica cronenberghiana, ecco arrivare il turning point, il punto di svolta di un intero sistema di valori: il piccolo Denis non è stato vittima di pauperismo e violenze familiari poiché è egli stesso, o meglio, proprio la sua sovraccarica fragilità, la causa della sua malattia. 

Come scritto da molti critici dell’epoca che lo cestinarono subito come prodotto minore, è vero che la narrazione di un complesso edipico irrisolto è questione da bignami della psicologia ma l’obiettivo del regista non è mai stato quello di tirar fuori dal cilindro chissà quale nuovo studio. Il suo scopo primario era quello di raccontare una storia di degenerazione (mentale) di una persona qualunque, il suo esser preda di crudele menomazioni (dell’intelletto), dell’impossibile compromesso tra salute e violenza, della coercizione che una struttura organica (il cervello) non può esercitare sulle sue parti pena la morte. “Spider”, un film di David Cronenberg appunto.

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