Recensione: Il codice del babbuino, al cinema dal 17 maggio

Recensione a cura di Mario Turco

Uno dei tanti demeriti del cinema pop (Tarantino sto guardando te!) degli ultimi anni è aver ridato lustro e dignità al tema della vendetta. Agli inizi fu il genere del “rape e revenge” che tra nudità brutalizzate e conseguenti squartamenti soddisfaceva contemporaneamente due degli istinti più ferini dell’uomo, il sesso e la violenza. L’odierna rivisitazione della vendetta gioca però su sovrastrutture ideologiche più perniciose: una persona comune subisce un’angheria e dato che le istituzioni sono irrilevanti pensa bene di farsi giustizia da sé in un crescendo parossistico di violenza, che adesso appaga sia le attese che le identificazioni dello spettatore medio. Cinema produttivamente
esangue nonostante gli ettolitri di sangue mostrati poiché ha pochissima attinenza con il reale e che bada solo alla costruzione patinata del percorso di redenzione del protagonista. Ciò che invece fa “Il codice del babbuino”, di Davide Alfonsi e Denis Malagnino, nelle sale dal 17 Maggio grazie a Distribuzione Indipendente è raccontare come uno dei tanti casi di sommaria (in)giustizia si risolva in un percorso etico zigzagato che non ha sbocchi consolatori. I due registi di Guidonia Montecelio, comune dell’hinterlando romano, fanno della loro povertà di budget la cifra stilistica di un cinema bellamente scarno, anzi scarnificato che punta ad elidere gli abbellimenti del cinema mainstream per andare all’osso delle vicende raccontate. 

Partendo da un fatto di cronaca realmente avvenuto nel 2009, raccontano della cupa nottata di fuoco passata dai due protagonisti in cerca degli aguzzini che hanno stuprato la fidanzata di uno di loro. L’abuso sessuale c’è stato ma non si vede su schermo: è lasciato fuori scena perché anche se non fosse avvenuto la spirale di eventi si sarebbe mossa lo stesso. A volte basta solo la notizia del fattaccio (il caso di Macerata), qui basta un corpo di donna portato all’ospedale di cui saggiamente non viene mostrata nessuna tappa del percorso sanatorio per alimentare un rancore latente verso i presunti stupratori. L’equazione è semplice (semplicistica in realtà, che è cosa ben diversa): la ragazza è stata trovata vicino un campo rom quindi sono stati gli zingari. La telecamera sceglie di appiccicarsi sulle facce livide di Denis e Tiberio che montano su una Citroen sgarrupata in cerca di indizi per l’identificazione dei carnefici. La regia di Alfonsi e Malagnino (anche ottimo interprete con una faccia di gravitas pasoliniana che ricorda l’innocenza perduta del miglior Ninetto Davoli) li segue nel loro barbaro pellegrinaggio compiuto tra casermoni di periferia e alveari di cemento che solo nelle mente delle archi-star che li avevano progettato alieni da qualunque contesto sociale sarebbero dovute essere oasi di aggregazioni.

La telecamera a mano inquadra esclusivamente strade ricolme di erbacce, spazi industriali lasciati all’abbandono, sale-slot della Tiburtina dove anche le informazioni sono barattate con li "sordiii" che non si hanno e si cercano disperatamente qui. Le guardie invece non si vedono mai, ridotte a presenze fantasmatiche continuamente evocate ma che si palesano solo per retate che in fondo non destabilizzano gli equilibri criminali del territorio. Il controllo è infatti nelle mani del “Talebano”, rais della suburra romana che riesce a rintracciare i colpevoli dello stupro attraverso un semplice giro di telefonate. La scoperta dell’identità dei violentatori rompe l’ultimo tabù di una notte ricolma di degradanti aberrazioni e fa precipitare la situazione verso un inaspettato finale. L’alba coglierà Denis con l’auto in panne, in una figurazione artistica della nuova situazione venutasi a creare dopo la recente nottata. “Il codice del babbuino” chiude così un’ordinaria vicenda di squallore periferico che lascia l’amaro in bocca per la perentorietà dell’assenza di fuga. Cinema, insomma.

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