La recensione di "Bogside story", un film di Rocco Forte al cinema dal 20 settembre

Recensione a cura di Mario Turco

Nel 2010, dopo quasi quarant’anni di negazione e silenzi David Cameron, allora Primo Ministro britannico, alla luce del documento ufficiale prodotto dal Parlamento inglese che attestava ciò che tutto il mondo sapeva dall’avvenuta strage rilasciò questa dichiarazione: “Le conclusioni di questo rapporto sono prive di equivoci: ciò che è successo il giorno di Bloody Sunday è stato ingiusto e ingiustificabile. È stato sbagliato”. Solo che la Domenica di Sangue del 1972, giorno in cui alcuni paracadutisti dell’esercito inglese spararono su una folla di irlandesi che marciava pacificamente per reclamare diritti civili uccidendo 14 persone, fu qualcosa di molto più crudele, non redimibile con una confessione di colpevolezza così tenue. Il Bloody Sunday fu uno dei
massacri occidentali più insensati della storia recente, una violazione assurda di naturali limiti etici da parte di una nazione alle prese con i bacati rimasugli ideologici di un imperialismo fuori tempo massimo. 

È per questo motivo che Bogside story”, documentario di Rocco Forte che esce nelle sale dal 20 settembre grazie a Distribuzione Indipendente, non fa nemmeno finta di voler sentire la controparte britannica (men che mai la politica, che si muove a passi di bradipo nella Storia) e si concentra esclusivamente sulla testimonianza artistica dei Bogside Artist su quell’evento così luttuoso. Il Bogside è il quartiere di Derry dove avvenne il Bloody Sunday ed è proprio qui che il documentario di Rocco Forte va a cercarne i segni ancora tangibili. In una piccola cittadina di un popolo così fieramente orgoglioso come quello irlandese il ricordo è un marchio stampato ancora sui visi di parenti ed amici delle vittime. Gli enormi dodici murales che campeggiano ben visibili dalla collina che sovrasta il quartiere dipinti da tre singolari figure di artisti operai sono in fondo l’esplicitazione grafica di un’eredità che si conserverà ancora per molte generazioni. L’occhio della videocamera inquadra infatti insistentemente quella porzione di case per testimoniare come quell’anelito di giustizia sia ben lungi dall’essere soddisfatto. Se questa parte che raccoglie le parole della popolazione locale pecca un paio di volte di inconsistenza lasciandosi andare a quadretti familiari fini a sé stessi (tutta la parte della moglie di Tom sembra messa lì solo per raggiungere la durata necessaria al lungometraggio) è la sezione che vede la partecipazione locale del foto-reporter Fulvio Grimaldi ad emergere. 

Il famoso giornalista italiano, in passato anche inviato di guerra, con la straordinaria arte affabulatoria che gli è propria, imprime al documentario la direzione d’inchiesta vera e propria. I buchi delle pallottole ancora visibili sui palazzi e sulle finestre degli hotel che ospitavano la stampa, i colpi sparati dai cecchini inglesi dalle mura di Derry alla ricerca dei mai esistiti sniper dell’IRA, le grida di terrore come l’incredulo “It’s live” di un manifestante che s’accorgeva con orrore della vera natura dei proiettili sparati dai blindati (come in uno scenario di guerra!) sono particolari che aiutano ancora adesso a comprendere dell’enormità di quella carneficina scriteriata. “Bogside story” non ha paura di percorrere tangenzialmente anche altre strade, come l’accenno al digiuno politico dell’attivista Bobby Sands, ritratto in uno dei murales, che si lasciò morire d’inedia in carcere dopo 66 giorni di sciopero della fame (vicenda raccontata magnificamente nel 2008 nell’esordio di Steve McQueen “Hunger”) o qualche accenno delle conseguenze del Bloody Sunday (il successo dell’I.R.A. nel reclutare giovani ancora più arrabbiati). Il documentario di Rocco Forte, pur respingendo analisi storiche che inseriscano quell’episodio nella secolare disputa per l’indipendenza irlandese, riesce a trasmettere la necessità della testimonianza artistica dei Bogside Artist che hanno dato al popolo ancora ferito risposte che le istituzioni si sarebbero degnate di sussurrare a denti stretti solo alla terza commissione d’inchiesta.

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