La recensione dello spettacolo "Le serve" di Jean Genet, andato in scena al Teatro Studio Uno dal 17 al 20 gennaio

Recensione a cura di Mario Turco

Sembra un paradosso provocatorio ma in fondo l’autorevolezza di un classico, se ci si riflette bene, deriva in ultima analisi dal grado di sottomissione che acquista nel mondo delle arti. Più esso è pronto a piegarsi a realtà e tempi eterogenei più il suo valore acquista autorità. Il genio ammette le contaminazioni perché non le teme, il mediocre invece si staglia in una posa adamantina perché teme anche solo di sporcarsi. Con “Le serve”, di Jean Jenet andato in scena al Teatro “Studio Uno” di Roma dal 17 al 20 Gennaio abbiamo avuto fortunatamente la possibilità di assistere ad una salutare infezione. La regia di questa versione è firmata da due giovani allievi dell’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica “Silvio d’Amico”, Michele Eburnea e Caterina Dazzi, tra l’altro alla loro prima collaborazione - fatto che dal testo non si evince data la sicurezza della messa in scena, ed è interpretato oltre che dallo stesso Eburnea da altre due bravissime allieve dell’Accademia, Sara Mafodda e Mersila Sokoli

Due preliminari note sul testo, diventato in brevissimo tempo un classico del teatro moderno anche a causa della sua capacità di ibridazione. Le serve (Les bonnes) è un atto unico di Jean Genet - uno degli autori più maledetti del secolo breve ma capace di stringere amicizia con i raffinati Jean-Paul Sartre e Jean Cocteau, scritto nel 1946. È una commedia tragica e violenta liberamente ispirata ad un fatto di cronaca realmente accaduto nel febbraio del 1933 a Le Mans, in Francia, che scosse l’opinione pubblica del tempo perché riguardava l’uccisione di una signora della buona borghesia e di sua figlia con brutale efferatezza da parte delle due serve a seguito di un lieve rimprovero. L’opera di Genet ne era già una libera rielaborazione dato che nella sua stesura l’omicidio non arriva ad essere perpetrato e si concentra invece sulle paranoie personali e di classe delle due sorelle a servizio. La versione curata da Eburnea e Dazzi attua un maggior stravolgimento e rende manifesta l’ipotesi di studio maggiormente seguita del testo originale: che la Signora sia solo una fantasmatica presenza all’interno delle fantasie delle due giovani protagoniste.

È un’idea potente che riesce benissimo in una messa in scena volutamente scarna e che si concentra solo su pochi oggetti psicologicamente connotati: la lampada, il telefono che trilla pur essendo staccato, il baule dove a turno emerge una delle ragazze. A quest’ultimo proposito, i due registi mischiano ulteriormente le carte e rifacendosi alle stesse indicazioni date dall’autore in “Come recitare Le serve” (tipo la sottilissima: “Le attrici non devono salire in scena col loro naturale erotismo, imitare le donne che si vedono sullo schermo. L’erotismo personale, in teatro, degrada la rappresentazione. Le attrici sono perciò pregate, come dicono i greci, di non scodellar la fica in tavola”) che voleva le tre protagoniste fossero interpretate da tre giovinetti fanno sì che uno dei lati del triangolo paranoico sia recitato proprio dallo stesso Michele Eburnea. 

Il carattere sperimentale di questa rappresentazione non arriva però mai a scontrarsi col testo originale andando solo a modificarne il finale. Ed anche qui la scelta di chiudere l’opera sull’eterna coazione a ripetere di queste donne oppresse da una condizione sociale e familiare degradante richiama alla mente fecondi stimoli sulla più grande malattia del nostro tempo che rende insani tutti i suoi partecipanti: il capitalismo. Fin quando la suddivisione economica tra ricchi e poveri, produttivi e improduttivi, padroni e serve sarà estesa all’intera ontologia umana vi sarà sempre qualcuno che non ce la farà a seguire il passo. E allora a due (tre?, Questo dilemma è la migliore eredità di questa versione) ragazze sole nel loro soffocante anfratto (mentale) non resta che ripeterne scimmiescamente le gesta, in pose sghembe e rattrappite che ne perpetuano un loop di stordente bellezza.

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