Recensione a cura di Mario Turco
Settecentomila euro di budget totale, un cast tecnico che dal direttore della fotografia allo sceneggiatore sino ad arrivare alla produttrice e alla montatrice e allo stesso regista comprende solo esponenti nati nei tardi anni 80, un unico set diviso in due micro-ambienti, la presenza di un solo protagonista che deve risolvere un caso di rapimento restando seduto in un centralino danese per l'emergenze, lo svolgimento in tempo reale della vicenda narrata con quella filmata: il film di Möller potrebbe sembrare un saggio da scuola di cinema. La sua natura profondamente thriller ha invece catturato i favori dei colti spettatori del Sundance Film Festival e a quello di Torino si è portato a casa i premi del pubblico come Miglior Sceneggiatura e Miglior Attore. Sulla scia di opere simili come “Buried” e “Locke”, il film dell'esordiente Möller si auto-impone limiti di spazio, tempo e tecnici per dimostrare ancora una volta come conti il modo di raccontare una storia piuttosto che il suo ricco metterla in scena. “Il colpevole” parte lentamente mostrandoci il protagonista, l'agente di polizia Asger Holm svolgere annoiato il suo turno al centralino. Si trova lì contro la sua volontà, costrettovi dall'esito di un processo che l'indomani lo vedrà imputato per aver sparato a un criminale mascherandosi dietro la legittima difesa. È un uomo d'azione e rispondere alle chiamate d'aiuto di clienti rapinati dalle prostitute nei quartieri a luci rosse o di ubriachi che litigano con i buttafuori non lo rende esattamente felice. L'arrivo di una misteriosa chiamata di una donna che sembra aver sbagliato numero rivelerà una torbida storia di rapimento e violenze domestiche che sembra potergli dare l'occasione del riscatto.
Fosse stata ideata nelle assolati colline di Hollywood (da cui tra l'altro i diritti del remake sono stati già acquistati per opera di Jake Gyllenhaal) probabilmente la storia del film avrebbe virato su questo lato catartico. Invece il film di Möller è figlio di una visione protestante del senso di colpa tipica del Nord-Europa che lo rende una cupa elucubrazione sull'impossibilità di sfuggirne. Asger Holm, durante il suo sincero tentativo di aiutare la donna rapita, effettua una serie di scelte muscolari che denotano una visione manichea del mondo. Cercando di fare sempre la cosa
giusta egli non bada mai al contesto dove tali orrori avvengono e così salta a conclusioni affrettate. Il marito di Iben, la voce che al telefono continua a chiedergli di proteggere i suoi figlioletti lasciati soli a casa, è un pregiudicato con alle spalle vari reati e quindi l'autore del terribile infanticidio non può essere che lui. Questa mancanza di empatia verso le brutture della società lo ha già fatto sbagliare una volta e continua a farlo anche adesso. L'inganno del regista, sapientemente portato in scena, è di nascondere sotto la cortina fumogena della terribile vicenda raccontata la mancanza di pietas troppo spesso sperimentata dai tutori dell'ordine costituito. La Legge ammette attenuanti sociali, ambientali e psicologiche ed Asger Holm lo capirà soltanto alla fine della storia raccontata. La bella immagine finale col poliziotto che lascia il centralino componendo un numero sul cellulare (quello della moglie che lo ha abbandonato? O quello dell'amico che dovrebbe testimoniare il falso al processo per salvarlo? Stimolante dubbio lasciato aperto) è allora la perfetta chiusa di un film che sotto l'andamento da thriller riflette a largo raggio su questi temi.