La recensione di "Mademoiselle", il nuovo film del regista Park Chan-wook in uscita nelle sale italiane dal 27 Agosto


Recensione a cura di Mario Turco

Non sarà un record ma ci siamo molto vicini dato che le tempistiche per l'uscita di questa opera cinematografica rasentano quelle dell'elezione al papato di Gregorio X, la più lunga della storia. Potremmo scrivere che Habemus filmam, finalmente, e in particolare ci riferiamo a "Mademoiselle" di Park Chan-wook, in uscita nelle sale italiane dal 29 Agosto distribuito da Altre Storie dopo 3 anni dalla sua produzione e perfino il passaggio ad una rassegna poco conosciuta come il festival di Cannes. Il cinefilo, si sa, è però animale paziente e dopo l'inevitabile fastidio per il ritardo raccontato va comunque a fiondarsi in sala per vedere l'ultima fatica del regista coreano già autore di un capolavoro assoluto del nuovo millennio come "Oldboy" (2003). Park Chan-wook gode infatti ancora di un buon credito presso il pubblico nonostante la sua cinematografia sia virata verso il basso ma con questo ultimo film crediamo che il numero degli appassionati si ridurrà drasticamente. Chiariamo subito : "Mademoiselle" non è un brutto film e questo perché (forse) nessun'opera di Park (nell'onomastica coreana il cognome precede il nome. Park è quindi il cognome, per chi non lo sapesse NdA) lo sarà mai. La qualità tecnica delle sue regie lo rende praticamente una presenza fissa dei festival di tutto il mondo e questo suo ultimo film non fa eccezione. 



Tratto dal romanzo “Ladra” della scrittrice britannica Sarah Waters, finalista al Booker Prize, “Mademoiselle” ri-coordina le vicende narrate nel libro ambientandole al posto dell’originale Inghilterra vittoriana nella Corea coloniale e nel Giappone degli anni ‘30. Il contesto più familiare permette al regista di eccellere ancora una volta sul piano visivo. Le preziose scenografie vengono infatti esplorate in lungo e largo da una macchina da presa sempre in movimento che non scade mai in gratuiti estetismi ma accarezza con morbidezza sia i begli esterni che gli opulenti interni. Ancora una volta però l'origine esogena della creazione artistica (l'idea di traslare su pellicola il romanzo della Waters non è del regista, come per altre sue opere recenti vedi “Stoker”, ma del produttore) fa sì che quasi tutti gli sforzi di Park vengano indirizzate su questo specifico filmico. Facile quindi parlare di cinema-tappezzeria, come ha fatto qualcuno, per una telecamera che spesso non ha paura di smarrirsi tra vestiti d'epoca, gioielli ed eleganti biblioteche. La vicenda d'amore saffico tra la ladra che si insinua con l'inganno nella casa di una ricca erede e la giovane fanciulla chiusa tra le dorate mura della sua magione spiace purtroppo notare come sembra quasi sottostare ai dettami scenografici. 


I principali avvenimenti si svolgono conseguentemente sempre in ambienti iper-caratterizzati dove l'occhio si perde mentre l'orecchio da parte sua fa fatica a seguire i numerosi dialoghi presenti. “Mademoiselle” assume a più riprese i caratteri del melò storico dove i fatti son sempre evidenti e quando la scena non è abbastanza chiara accorre perfino la voce narrante dei protagonisti a spiegare umori e sensazioni. Le tre parti in cui è divisa la storia non diventano mai, come qualche critico d'oltreoceano ha suggerito con troppa leggerezza, versioni sfalsate della verità alla “Rashomon” bensì sono parti integranti di una storia che sfiora a tratti il superfluo. Tante le sottotrame accennate e mai realmente analizzate: se la lettura dei testi erotici da parte di Hideko, interpretata dalla bellissima Kim Min-hee, rimane la scena più potente del film proprio per la sua capacità di suggerire formidabili eccitamenti senza far vedere lembi di pelle, più gratuiti appaiono i riferimenti alla tortura e alla violenza proprio perché sono stanchi omaggi alla celebre “Trilogia della vendetta” che ha fatto conoscere il regista sudcoreano al mondo. Proprio su questo ultimo punto occorre notare come essa sia effettivamente un punto cinematografico a cui Park, per naturale evoluzione della sua poetica, non tornerà mai più. Così come non ha senso che i suoi estimatori pretendano quelle forme stilistiche per lo stesso autore assume però una curiosa forma di masochismo tornarvi con una tale mesta pochezza. 


“Mademoiselle” si trova quasi all'opposto di “Lady vendetta” e va bene così. Meno bene è capire che la visceralità di quel periodo è andata persa per seguire forme canoniche del thriller attraverso plot twist di facile deduzione. Peccato, perché la storia d'amore tra le due giovani è narrata con partecipazione e delicatezza e avrebbe meritato un incastro narrativo più interessante di una semplice storia di tradimenti e doppiogiochi.

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