La recensione del film "Il mistero Henri Pick", di Rémi Bezançon. Nelle sale dal 19 dicembre

Recensione a cura di Mario Turco

A Natale la strenna che il cinema italiano si è spesso regalata da solo è stato guardare alla produzione filmica francese, prendere nota del loro successo e portare i migliori format l'anno dopo nelle nostre sale. Da “Giù al Nord” a “Le Prénom” nell'ultimo decennio abbiamo acquistato tante idee dai cugini d'Oltrape perdendone per strada un po' dell'originalità. Ossessionati come siamo di accontentare i gusti del pubblico più eterogeneo, frutto di quella tendenza omnibus che è diventata imperante dagli Ottanta in poi, noi invece abbiamo progressivamente smarrito il posto per commedie settoriali come questo “Il mistero Henri Pick”, di Rémi Bezançon, prodotto da Mandarin production, con Gaumont, France 2 Cinema e i belgi di Scope Pictures. Anche se è uscito nelle sale italiane il 19 Dicembre distribuito da I Wonder Pictures speriamo che gli spettatori sappiano riscattare l'afasia della nostra produzione garantendo una lunga vita in sala ad un film scritto in maniera molto intelligente. 


“Il mistero Henri Pick” è tratto dall'omonimo libro dello scrittore David Foenkinos, uscito nel 2016, e ne mantiene inalterata la struttura. Non temendo di confrontarsi col genere (col rischio di essere ripetitivi in questo confronto, a differenza nostra, che solo recentemente coi successi di Gomorra abbiamo capito quanto esso sia foriero di spunti creativi), Bezançon immerge la storia nei meccanismi del giallo letterario. A Crozon, piccolo centro della Bretagna, la giovane editor Daphné Despero (Alice Isaaz) trova nella Biblioteca dei libri rifiutati il manoscritto “Le ultime ore di una storia d’amore”, scritto da Henri Pick, illetterato pizzaiolo del paese. La ragazza lo da subito alle stampe creando un caso che arriva perfino nello studio televisivo del critico letterario Jean-Michele Rouche (interpretato dal sempre bravo Fabrice Luchini) che approfitta della presentazione in diretta del libro per manifestare con arroganza i dubbi sulla reale paternità dell'opera. Ne seguirà un'indagine venata di leggera comicità per cercare di smascherare l'imbroglio. La sceneggiatura dello stesso Bezançon insieme alla fidata Vanessa Portal si destreggia con abilità tra alcuni fondamentali nodi editoriali del nostro tempo e più prosaiche prese in giro dei propri protagonisti. Pur ostentando la propria pulizia formale (ad una seconda visione il film mostra la propria labilità ideologica) e non approfondendo nessuno dei temi tirati in ballo, “Il mistero Henri Pick” racconta comunque per buona parte il cinismo del marketing nel mondo della cultura. Il libro postumo di Henri Pick è infatti un piccolo capolavoro che però senza la storia del ritrovamento nella fascinosa Biblioteca dei libri perduti nella Bretagna, dove ancora si gira in bicicletta, non avrebbe avuto il successo che meritava. 


“Quest'epoca è ossessionata dalla forma”, constata ad un certo punto con amarezza lo stesso Rouche. In un'epoca dove perfino la politica cede il passo allo storytelling anche un buon libro deve farsi precedere da una bella storia. Le battute sul pizzaiolo che scriveva mentre lasciava riposare l'impasto di questo romanzo e il delicato equilibrio tra la fine della propria storia e il parallelo con la riflessione sulla morte fatta dal poeta russo Puskin, hanno il compito di smitizzare la moderna ansia di dare il belletto a qualunque cosa. L'esempio italiano di Elena Ferrante con la quale non si capisce mai dove inizi la bellezza del suo stile e dove finisca il fascino così fuori tempo del suo anonimato sta lì a dimostrarlo. Ma “Il mistero Henri Pick” non rimane sospeso solamente a questo livello generale ma scende anche sul piano personale della vanità di qualunque scrittore. Nessuno in fondo scrive davvero solo per sé stesso, chiunque spera che “un giorno il suo talento venga riconosciuto“, soprattutto in un Paese come la Francia che “ha più scrittori che lettori”. Qui il film s'accontenta di qualche buona battuta senza mordere più di tanto, mostrando in questo modo come sia interessato più a far sorridere bonariamente i suoi spettatori senza sferzarli troppo. Ne è prova la scontata gag sul Club delle scrittrici provinciali appassionate del thriller ma soprattutto la risoluzione finale del giallo. Dopo aver giocato bene con i topoi del genere cominciando con la presentazione finto-oggettiva del ritrovamento (ogni stacco di montaggio è una bugia, se qualcuno non dovesse ricordarlo. Ma lo è anche l'inquadratura), proseguendo con l'accumulo di indizi e arrivando al geometrico smascheramento si arriva al colpo di scena, talmente prevedibile che cerca di ovviarvi andando sul romanticismo spiccio. Romanticismo sentimentale ma quel che è peggio, letterario: innamorarsi dell'autore più che dell'opera è roba da Harmony.

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