La recensione di "Josep", un film di Aurel. Al cinema dal 30 agosto al 1 settembre

Recensione a cura di Mario Turco

“Il disegno è l’arte della scorciatoia, non per fare le cose di fretta, ma per portare l’occhio dello spettatore o del lettore alla vera essenza di ciò che vogliamo dire. Tutto il resto è decorazione”. Il cinema è quindi un orpello? Anche se lo fosse davvero sarebbe comunque la decorazione più significativa del XXI secolo dato che ha segnato e segna un punto di non-ritorno del nostro immaginario che non sa più pensarsi lontano da rappresentazioni fisiche e concettuali in movimento. Ed è interessante che a rilasciare questa dichiarazione sia stato (naturalmente) un fumettista alle prese (molto meno naturalmente) con il suo primo film da regista. “Josep” è infatti l'esordio dietro la macchina da presa digitale di Aurel, pseudonimo di Aurélien Froment, vignettista francese tra gli altri per Le Monde. Selezionato in concorso nella sfortunata 73ma edizione, annullata causa Covid, del festival di Cannes, il film in Italia sarà in sala come evento speciale il 30, 31 agosto e 1 settembre grazie alla distribuzione di Lumière e Anteo. 


Josep ha già vinto il premio César come miglior film animato francese del 2020 ed è stato prodotto da Serge Lalou per Les Films d’Ici Méditerranée. Nei suoi troppo brevi 74 minuti di durata il film racconta a grandi linee la vita e le opere del celebre illustratore Josep Bartolí (Barcellona 1910 – New York 1995) concentrandosi significativamente su una delle tante rimozioni storiche della Francia e cioè il comportamento aberrante tenuto dallo stato transalpino nei confronti degli esuli spagnoli che fuggivano, dopo la guerra civile, dalla nascente dittatura di Franco. Cristalline a questo proposito le parole dello sceneggiatore Jean-Louis Milesi, collaboratore fisso del militante regista Robert Guédiguian, che ricorda le colpe della sua nazione: “quella Francia che, all’alba di una delle sue più grandi tragedie (siamo all’inizio del 1939), si comporta nei confronti dei repubblicani spagnoli nel peggior modo possibile, come se questi fossero bestie, prigionieri, mettendoli in condizioni igieniche così deplorevoli che migliaia di loro moriranno. La Francia tiene un registro dei loro nomi proprio come viene fatto per gli Ebrei più a nord. E saranno proprio questi registri a permettere ai tedeschi di riempire i primi convogli diretti a Mauthausen nel 1940. Più di 7000 spagnoli verranno mandati lì”. A dimostrazione che nessun personale smette mai di essere politico, Josep immette la narrazione delle difficilissime condizioni di vita esperite da Bartoli – egli fu infatti uno dei quasi 500.000 repubblicani spagnoli che attraversarono i Pirenei per trovare rifugio in Francia e fu rinchiuso nel campo di Argelès - legandola all'oggi. 


A fare da raccordo tramico è un adolescente dei nostri tempi, completamente radicato nel suo vivere quotidiano, bravo a disegnare ma senza nessuna opinione sociale sul mondo che lo circonda. Il ragazzo si troverà legato a Josep Bartolí in un duplice modo: grazie al disegno, naturalmente, ma principalmente grazie a suo nonno che conosceva di persona Bartolí perché era una delle guardie del campo. La presa di coscienza del ragazzo sarà parallela a quella provata a suoi tempi dal nonno che saprà riscattare le infamie dei suoi superiori aiutando l'artista dapprima a scoprire cosa ne è stato del suo grande amore Maria Valdés e in seguito a fuggire dal campo. Per quanto riguarda questa dimensione di denuncia Josep riesce mirabilmente nel suo intento servendosi in maniera originale ed espressiva dell'animazione. I disegni dalle linee essenziali e dai colori sfumati donano enfasi drammatica alle scene e dialogano in maniera egregia con gli originali di Bartolì inseriti nel film di cui non sono mai semplici calchi ma intense re-interpretazioni. Più velleitaria purtroppo risulta la volontà di dar risalto alla recente scoperta storica - il loro legame è testimoniato da 25 lettere che la pittrice messicana gli scrisse tra il 1946 e il 1949 - del rapporto amoroso intrattenuto dall'illustratore spagnolo con Frida Kahlo che non ha il giusto tempo per dispiegarsi e viene sbrigato con qualche forzatura poetica e di colore di troppo. Anche il tentativo di celebrare le altri fasi della poetica di Bartoli – la mostra post-mortem a New York con i suoi dipinti fatti da macchie di colore per la sopravvenuta cecità – sebbene siano mosse da un intento lodevole fanno deragliare sul finale la grande forza derivante dalla collezione di disegni Campos de concentración. Anche se può sembrare un paradosso terribile in realtà è proprio dal punto di vista cinematografico che il resto della vita di Bartolì è decorazione.

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