La recensione dello spettacolo “Una giornata qualunque del danzatore Gregorio Samsa”, in scena al Teatro Quirino fino al 3 Ottobre

Recensione a cura di Mario Turco

Facciamo un piccolo esperimento e richiamiamo alla memoria uno degli incipit più fulminanti della letteratura mondiale, capace da solo di dare vita ad una ridda inesauribile di prosecuzioni, interpretazioni e possibili antefatti: "Gregorio Samsa, svegliatosi una mattina da sogni agitati, si trovò trasformato, nel suo letto, in un enorme insetto immondo". Adesso buio, non solo mentale. Facciamo apparire un quadrato di luce su un palco altrimenti immerso nel nero più pesto e lasciamo che dall'ombra emerga un viso stirato fino al parossismo che, entrando ed uscendo da quel bagliore, comincia a fare uno stranissimo ballo prima col solo volto e poi coinvolgendo il corpo intero. Uniamo le due cose e otteniamo “Una giornata qualunque del danzatore Gregorio Samsa” in scena al Teatro Quirino fino al 3 Ottobre, chiamato ad aprire la stagione del celebre teatro sito nel cuore di Roma nel segno della sperimentazione. 


Regia e drammaturgia dello spettacolo sono difatti firmate da Eugenio Barba, alla sua prima e unica regia firmata al di fuori dell’Odin Teatret, Julia Varley e Lorenzo Gleijeses, con quest'ultimo che è anche l'unico performer – attore sarebbe davvero riduttivo – presente in scena. Il progetto è stato prodotto direttamente dal Nordisk Teaterlaboratorium (branca produttiva dell’Odin), pensato sin dal 2015 e sempre più affinato nel corso degli anni fino a questa versione nata in collaborazione con il Teatro Biondo di Palermo e con la Gitiesse Artisti Riuniti. L'eccezionalità di Una giornata qualunque del danzatore Gregorio Samsa ha imposto al Quirino di rinunciare alla sua solita conformazione facendo sì che gli spettatori trovassero posto direttamente sul palco, in una prossimità con l'interprete molto simile a quella di un qualunque teatro-off. La scelta, già messa in atto nelle tournée precedenti, è particolarmente felice perché consente l'immersione profonda ad un testo ed una visione che richiedono una particolare capacità di concentrazione. L'immaginario danzatore omonimo del capolavoro di Franz Kafka si pone infatti al crocevia di tre direzioni concettuale precise e ben distinguibili: da un lato il quarantenne performer vive con ansia il prossimo debutto perché è guidato da un Maestro che (forse) non crede in lui; dall'altro lo studio ventennale sulla sua danza da insetto lo ha incentivato a replicarne i passi perfino nelle faccende domestiche portandolo sull'orlo di esaurimento artistico/nervoso; infine ha un rapporto con il padre stracolmo di tensioni irrisolte ed aspettative disilluse. 


Su quest'ultimo punto Lorenzo Gleijeses gioca senza paura al rialzo intertestuale portando naturalmente sul palco la propria condizione di figlio d'arte e chiamando il padre Geppy – che è anche direttore artistico del Quirino, in un groviglio di legami meta-teatrali davvero gustoso – a prendere le parti vocali del pretenzioso genitore. Così quando Gregorio recita alcuni stralci della Lettera al padre che lo scrittore boemo, nel più significativo degli atti mancati di un'intera vita fatta di atti mancati (ad esempio il rapporto con le donne di cui lo spettacolo accenna in maniera rapida ma precisa nel rapporto del danzatore con la sua fidanzata interpretata da Maria Alberta Navello, sua moglie nella realtà) avevo steso senza mai spedirgliela, nell'habitué del Quirino il senso di vertigine è totale. D'altro canto, come rapportarsi ad uno spettacolo che, come si accennava prima, è quasi esclusivamente coreografico e fondato sull'interpretazione multi-sensoriale di Lorenzo Gleijeses? Avvalendosi delle partiture luminose di Mirto Baliani, della consulenza drammaturgica di Chiara Lagani e soprattutto della consulenza coreografica di Michele Di Stefano, l'attore in un'ora di spettacolo da sfoggio delle sue composite capacità recitando mentre compie atletici salti alla corda, sostituendo i normali passi con un dolorosissimo e penosissimo camminamento sulle ginocchia, martellando lo spettatore e punendosi egli stesso con la reiterazione compulsiva di tic semi-autistici. Ecco allora che l'ansiogena storia de La Metamorfosi qui è circoscritta all'incubo raccontato da Gregorio alla sua psicologa, come se la vita dell'omonimo danzatore fosse ancora più allucinata di quella immaginata da Kafka per il suo Gregor Samsa. In fondo, per essere un insetto non bisogna diventarlo: basta ballare al ritmo delle proprie terribili idiosincrasie.

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