La recensione dello spettacolo "Uno, nessuno e centomila", di Luigi Pirandello per la regia di Antonello Capodici al Teatro Quirino di Roma fino al 30 Gennaio

Recensione a cura di Mario Turco

L'Io in letteratura non è più stato lo stesso dopo Lui. Che non è naturalmente “l'autoerotomane affetto da violenza ereditaria”, per andare ad un altro grande della scrittura che dileggiò nella maniera più violentemente forbita Benito Mussolini, ma quel Luigi Pirandello che disgregò in maniera irreparabile i già frantumati cocci identitari di inizio Novecento. Ecco allora che in un'epoca spesso intenta alla straniante rivisitazione dei classici – l' “Amleto”, di Joel Coen su Apple Tv+, per fare l'ultimo dei tanti esempi che ci viene in mente – tocca tornare proprio a quei capolavori del canone (occidentale) per rendersi conto di cosa li renda attuali senza la necessità di fare indossare ai suoi protagonisti una mascherina chirurgica (come alcuni hanno fatto). E l'autore siciliano, premio Nobel per la letteratura nel 1934, risulta ancora fondamentale in un discorso pubblico dominato dai discorsi sull'identità di genere. 


Con “Uno, nessuno e centomila”, in scena al Teatro Quirino di Roma fino al 30 Gennaio con regia a cura di Antonello Capodici, questa versione teatrale consente di avvicinarci al nucleo più importante della filosofia romanzesca e romanzata di Luigi Pirandello (e non ce ne voglia quel famoso critico letterario che ammirava il Pirandello scrittore ma lo reputava mediocre come filosofo: noi reputiamo questa cagliatura troppo accademica). Come ricordato nelle note di regia, infatti “Pubblicato nel ’25 a puntate, in versione definitiva l’anno dopo, ma iniziato nel decennio precedente, l’ultimo romanzo del Genio agrigentino è la summa del suo pensiero, della sua sterminata riflessione sull’Essere e sull’Apparire, sulla Società e l’Individuo, sulla Natura e la Forma”. Anche se nato su pagine di carta, il testo di Pirandello si presta benissimo a calcare le assi del palco e l'attenta regia di Capodici lo dimostra. La storia di Vitangelo Moscarda che ad un giudice acchittato racconta il motivo della sua pazzia comincia infatti con la celebre e semi-farsesca presa d'atto della stortura del suo naso. È la moglie (interpretata con cognizione da Mariangela Bargilli), in un giorno ed in uno scambio dialogico come tanti, a fargli notare per la prima volta un difetto corporale che egli non sospettava nemmeno di avere. Mentre lui aveva sempre creduto di avere un naso normale, la sua consorte e tutti gli altri ridevano della sua forte pendenza a destra. Questa semplice presa d'atto manda in crisi l'uomo: lui non è l'uno che credeva di essere ma una delle centomila proiezioni sociali del suo Io – e nemmeno la più credibile: “Non mi conoscevo affatto, non avevo per me alcuna realtà mia propria, ero in uno stato come di illusione continua, quasi fluido, malleabile; mi conoscevano gli altri, ciascuno a suo modo, secondo la realtà che m'avevano data; cioè vedevano in me ciascuno un Moscarda che non ero io non essendo io propriamente nessuno per me: tanti Moscarda quanti essi erano”. 


Il primo atto di “Uno, nessuno e centomila” segue fedelmente le vicende del romanzo ponendo al centro della scena i rovelli e le continue crisi del maturo direttore dell'omonimo banca lasciatigli in eredità dall'autoritario padre. Pippo Pattavina con la sua incredibile interpretazione - 83anni di cui circa 65 di puro mestiere passati sui palchi siciliani prima ed italiani dopo e nemmeno un passo falso durante le due ore di rappresentazione che non lo vedono mai fuori dalla scena – accentua i caratteri drammatici del personaggio scegliendo di non calcarne le rarissime escursione comiche nonostante facciano parte del suo repertorio brillante. I monologhi col pubblico, i ricordi del passato portati alla ribalta non come difesa ma come sconsolata conferma della sua “pazzia”, i ribaltamenti esistenziali (il rapporto con Marco Di Dio, la vendita della banca, la storia con la “quasi amante” Maria Rosa) vengono enfatizzati da una regia che pur restando nell'ambito della tradizione si apre a qualche spiraglio d'avanguardia. A partire dai frequenti cambi di scena, messi in atto grazie alla scenografia di Salvo Manciagli giocata su due livelli di profondità, fino ad alcuni giochi di luce e sovrapposizioni grafiche che come nel caso dell'assolo davanti lo specchio contribuiscono a rendere più penetranti alcuni passaggi. La scelta di non rinunciare alla profonda struttura verbale del romanzo di partenza – la pièce come accennato dura due ore e 10 minuti compreso l'intervallo – porta a lasciare, per la gioia dei pirandelliani della prima ora (che dovremmo essere tutti!), quasi intatte le riflessioni esistenziali. Perché forse è vero che, come dice Moscarda: “Quando uno vive, vive e non si vede. Conoscersi è morire” ma essere ucciso per troppo sapere dell'Io dalla penna di Pirandello e dalla straziante voce di Pippo Pattavina non è poi un destino tanto baro.

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