La recensione di "Nope", di Jordan Peele nelle sale dall'11 Agosto

Recensione a cura di Mario Turco

No. Potessimo permetterci una recensione sperimental/avanguardista del nuovo film di Jordan Peele, “Nope”, in uscita nelle sale italiane dall’11 Agosto tramite la distribuzione di Universal Pictures Italia, il giudizio sul film sarebbe un sonoro ed unico no. Come il rifiuto che i personaggi del terzo lungometraggio del regista statunitense, padre del “sofisticated horror” (qualunque cosa voglia dire questa definizione, e soprattutto con tanti saluti a venerabili maestri come Abel Ferrara, Stanley Kubrick e Andrzej Zulawski, i primi che vengono in mente), emettono spesso durante il lungometraggio quando messi alle prove da particolare situazioni di stress o sottoposti a domande cretine. No, o nope nello slang americano, a rimarcare il fatto che anche di fronte a situazioni complesse la semplicità e la categoricità dell’essere contrari paga (quasi) sempre. È indubbiamente questa la trovata migliore che Peele, un Oscar alla Migliore Sceneggiatura nel 2018 troppo generoso e che sembra già una condanna a dover essere intelligente ad ogni scrittura, mette in un film che nato e pensato come l’opera del definitivo volo verso l’empireo del cinema contemporaneo alla fin fine si risolve invece in un’innocua esibizione di forza (le riprese del direttore della fotografia Hoyte van Hoytema in IMAX dell’assolata California). Come anticipato ampiamente nel trailer, e come rilanciato pomposamente da una campagna marketing sempre molto virale, in “Nope” si parla di alieni, venuti dallo spazio più profondo per attendere in maniera specifica, quasi ossessiva, il ranch Haywood sito ad Agua Dulce, nel deserto wilderness di Santa Clarita in California. Così, dopo l’orrore politico/familiare di “Get Out - Scappa” e quello sociale/capitalistico di “Us”, Peele volge il suo sguardo al cielo lasciando però a terra l’esibito impegno dei suoi primi due film. 


Non c’è nessuna guerra dei mondi, né incontri ravvicinati del terzo tipo qui alla Steven Spielberg o comunicazioni interstellari alla Denis Villeneuve: tutto il terzo atto del lungometraggio è una specie di lunga caccia al Kaijū, divertente e ben ritmata quanto si vuole ma girata con l’arrendevolezza tipica dell’autore che ha deciso di fare un blockbuster estivo lasciando che i suoi temi, trattati come codici già riconoscibili dal pubblico, traspaiano di tanto in tanto. Ecco allora che Otis (il bravissimo Daniel Kaluuya) e Emerald (Keke Palmer) sono i discendenti dell’anonimo fantino afroamericano ritratto nelle prime immagini cinematografiche della storia de “Cavallo in movimento”, catturate da Eadweard Muybridge e che, come rivendicato dalla ragazza nel discorso sul set, è giunta l’ora che la dimenticanza di un’epoca davvero altra, sia tecnicamente che collettivamente, venga ribaltata in segno opposto dall’assegnazione del lavoro agli unici esponenti black che si occupano di cavalli ad Hollywood. Ma la fiera appartenenza al cosiddetto neo-cinema black in “Nope” sembra più che altro un marchio registrato, una specie di proprietà intellettuale da esibire che non aggiunge niente di significativo al contesto fantasy/horror. 


Il terzo film di Peele si muove infatti tra capitoli – ancora? Sembra che la suddivisione in segmenti letterari/puntate di serie tv sia l’unico storytelling possibile per il cinema degli ultimi vent’anni – quasi autoconclusivi, che non parlano tra sé e lasciano che sia la sottile rete di rimandi interni a stuzzicare lo spettatore. Qui interviene, o meglio dovrebbe intervenire, allora la forza (supposta) di questi spezzoni, che stranamente giunge invece in maniera sgonfia su schermo. Il rapporto tra i due fratelli Otis ed Emerald, ad esempio, opposti sia dal genere che dal carattere fino alle scelte di vita, genera battute interessanti ma dinamiche familiari prevedibili. E anche l’evento traumatico di Jupe, alle prese con una feroce scimmia assassina nella sitcom dove recitava, Gordy’s Home, ha al massimo l’iconicità di un frame horror di un corto derivativo. Se nella prima parte (la migliore), sembra di vedere un omaggio al sottovalutato “Signs”, di M. Night Shyamalan, nella seconda l’intera sequenza fracassona della caccia al mostro fa affiorare sulle labbra, per la terza volta su tre nella carriera di Peele (qui in maniera ancora più desolante): “Tutto qui?”. Davvero, mostrare nel 2022 con gli eccessi parodici del comedian e il canone dell’horror più mainstream che siamo, ancora e sempre, nella società dello spettacolo di debordiana memoria può contrassegnare quest’epoca cinematografica? No, o meglio, Nope.

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