Recensione a cura di Mario Turco
Non c’è nessuna guerra dei mondi, né incontri ravvicinati del terzo tipo qui alla Steven Spielberg o comunicazioni interstellari alla Denis Villeneuve: tutto il terzo atto del lungometraggio è una specie di lunga caccia al Kaijū, divertente e ben ritmata quanto si vuole ma girata con l’arrendevolezza tipica dell’autore che ha deciso di fare un blockbuster estivo lasciando che i suoi temi, trattati come codici già riconoscibili dal pubblico, traspaiano di tanto in tanto. Ecco allora che Otis (il bravissimo Daniel Kaluuya) e Emerald (Keke Palmer) sono i discendenti dell’anonimo fantino afroamericano ritratto nelle prime immagini cinematografiche della storia de “Cavallo in movimento”, catturate da Eadweard Muybridge e che, come rivendicato dalla ragazza nel discorso sul set, è giunta l’ora che la dimenticanza di un’epoca davvero altra, sia tecnicamente che collettivamente, venga ribaltata in segno opposto dall’assegnazione del lavoro agli unici esponenti black che si occupano di cavalli ad Hollywood. Ma la fiera appartenenza al cosiddetto neo-cinema black in “Nope” sembra più che altro un marchio registrato, una specie di proprietà intellettuale da esibire che non aggiunge niente di significativo al contesto fantasy/horror.
Il terzo film di Peele si muove infatti tra capitoli – ancora? Sembra che la suddivisione in segmenti letterari/puntate di serie tv sia l’unico storytelling possibile per il cinema degli ultimi vent’anni – quasi autoconclusivi, che non parlano tra sé e lasciano che sia la sottile rete di rimandi interni a stuzzicare lo spettatore. Qui interviene, o meglio dovrebbe intervenire, allora la forza (supposta) di questi spezzoni, che stranamente giunge invece in maniera sgonfia su schermo. Il rapporto tra i due fratelli Otis ed Emerald, ad esempio, opposti sia dal genere che dal carattere fino alle scelte di vita, genera battute interessanti ma dinamiche familiari prevedibili. E anche l’evento traumatico di Jupe, alle prese con una feroce scimmia assassina nella sitcom dove recitava, Gordy’s Home, ha al massimo l’iconicità di un frame horror di un corto derivativo. Se nella prima parte (la migliore), sembra di vedere un omaggio al sottovalutato “Signs”, di M. Night Shyamalan, nella seconda l’intera sequenza fracassona della caccia al mostro fa affiorare sulle labbra, per la terza volta su tre nella carriera di Peele (qui in maniera ancora più desolante): “Tutto qui?”. Davvero, mostrare nel 2022 con gli eccessi parodici del comedian e il canone dell’horror più mainstream che siamo, ancora e sempre, nella società dello spettacolo di debordiana memoria può contrassegnare quest’epoca cinematografica? No, o meglio, Nope.