La recensione de "Amleto", di William Shakespeare per la regia di Giorgio Barberio Corsetti in scena al Teatro Argentina di Roma fino al 4 Dicembre
Recensione a cura di Mario Turco
Siamo in presenza del solito primo impatto destabilizzante del teatro di ricerca di Giorgio Barberio Corsetti: il suo Amleto si abbatte giustamente come una scure sul lato scenografico ed interpretativo delle spesso ingessate trasposizioni classiche ma lascia quasi invariato uno dei testi fondamentali della modernità. La maggiore novità di questa trasposizione è l’architettura multipiano progettata da Massimo Troncanetti che essendo divisa su tre livelli verticali e potendo contare su agili ruote consente subitanei cambi di scena. Come se fossimo all’interno di un lungometraggio cinematografico, il ritmo di questo “Amleto” non subisce mai né pausa né inflessioni arrestandosi soltanto dopo due ore d’attanagliante pathos. Forse l’unico difetto di questo flusso, (è proprio il caso di scriverlo considerato l’enorme lavoro compiuto su una messinscena mai uguale a sé stessa), audiovisuale è che non sia stato così radicale: lasciando nel primo grosso blocco narrativo anche l’acme della tragedia, e cioè la pantomima “L’assassinio di Gonzago” fatta dagli attori reclutati da Amleto per smascherare l’omicidio compiuto dallo zio Claudio, la mezz’ora finale dopo la pausa può essere vissuta da uno spettatore distratto come un epilogo non necessario. In questa rivisitazione intrapresa da Corsetti è Amleto a raccontare in prima persona le vicende che lo vedono coinvolto per la successione al regno di Danimarca.
Questa focalizzazione sul fosco ed inquieto principe che parla col padre morto ed ha, a voler essere criticamente aeri, qualche problema con le donne riesce in maniera miracolosa sia ad aumentare l’empatia col celeberrimo personaggio – eccezionale Brasca nella sua performance accurata ma a volte addirittura guascona che dona un’indolenza nuova ad un carattere già sovrabbondantemente re-interpretato – sia a dare il giusto risalto ai temi del Bardo, non pedissequamente omaggiati quanto lasciati liberi di correre in altre direzioni critiche. Così ecco che il fantasma del padre non è la classica apparizione spettrale che ci si potrebbe aspettare ma un’inquietante figura che emerge dalle brume nonostante l’opposizione di un bastone di metallo che lo traina lateralmente (perché chi ha detto che l’aldilà debba essere necessariamente giù???), così ecco che Amleto e Ofelia discutono del loro amore su un piano inclinato cadendo infine nel letto sottostante ma senza la consumazione dell’atto sessuale, così ecco che Polonio trova la morte nascosto dietro l’arazzo del re Claudio come geniale prefigurazione della vera vendetta che il nipote vorrebbe portare a compimento contro il despota zio. L’ “Amleto” di Corsetti riesce quindi a mettere in atto una delle massime più attuali del principe di Danimarca: “Presta a tutti il tuo orecchio, a pochi la tua voce”.