La recensione dello spettacolo "Pane o libertà", di e con Paolo Rossi al Teatro Vittoria di Roma fino al 26 Febbraio

Recensione a cura di Mario Turco

Straordinario Paolo Rossi. Mentre noi musi lunghi della critica scrollavamo infastiditi su Facebook mobile sperando di saltare quanto più possibile ogni post che riguardasse Sanremo oppure scrivevamo un indignato alert per avvisare i nostri 100 contatti che li avremmo smessi di seguire per un mese qualora avessero osato insozzarci la bacheca con commenti sulla settimana canora della cittadina ligure, il comico milanese manteneva vigile il suo senso critico e riusciva a cogliere la componente più assurda di due degli eventi più importanti di quelle serate. 


Ecco allora che in “Pane o libertà. Per un futuro immenso repertorio”, da lui scritto e naturalmente interpretato, in scena al Teatro Vittoria di Roma fino al 26 Febbraio grazie alla produzione Agidi Srl, la presa a calci dei fiori regalatagli dal suo compagno di palco Emanuele Dell’Aquila e il successivo improvvido bacio stampatogli in bocca diventano subito divertentissime gag che oltre a funzionare al livello più elementare per quanto riguardo mimica e tempi riescono quasi da subito a rassicurare noi barbagianni ingobbiti: Sanremo non è una penitenza imposta dal servizio pubblico ma uno dei tanti materiali dell’attualità da ricollocare e ricolorare nel teatro dell’assurdo di un vecchio comico che si ostina a portarlo avanti con fulgida determinazione. Ed è proprio sul palco che Paolo Rossi mostra la sua vera natura recuperando la lucidità che vuoi per età o vuoi semplicemente per i limiti intrinseci del mezzo televisivo (uno degli esiti di questo spettacolo è stato farci passare dalla prima ipotesi alla seconda) sembrava aver smarrito nelle ultime spente ospitate alla trasmissione di Diego Bianchi Propaganda Live: il menestrello lombardo ha bisogno di spazio, fisico e mentale, per mettere in atto la sua commedia dell’arte. Una commedia dell’arte che ha inoltre così bisogno degli umori del pubblico da cercare addirittura attori in platea, come fanno gli altri due componenti dell’ensemble chiamato scherzosamente “I virtuosi del Carso”, Alex Orciari e Stefano Bembi. “Pane o libertà. Per un futuro immenso repertorio” gioca sull’idea di essere uno spettacolo basato sull’improvvisazione, una non-replica che ogni sera può variare in base alle interazioni col pubblico e le singole trovate di Rossi e dei suoi tre musicisti/attori. Quasi ovviamente, verrebbe da dire, in realtà questa radicalità programmatica viene disattesa perché è evidente che la base dello spettacolo ha una forte struttura di sostegno che sì, subisce puntelli ed innesti a seconda dell’andamento della singola rappresentazione, ma ha la perfezione scenica di qualcosa di ampiamente provato. 


Paolo Rossi però rimane formidabile nel disseminare di piccole fratture – “Il trasgressore che trasgredisce molto diventa traditore” – questo suo ultimo spettacolo che corre saltando in maniera volutamente sfalsata tra amarcord, favole re-inventate per bambini disobbedienti, paure personali (la parte sulla prostata è quella più debole, repertorio vecchio e con tante rughe di scrittura) e i soliti strali alla politica. Anche se quest’ultima caratteristica è diventata ancillare nel teatro di questi anni, l’attore milanese riesce ancora a farsi splendido veicolo della disillusione della parte più progressista della società: “Non è che ho cambiato idea, sono le idee ad aver cambiato posto […] Io sarei ancora di sinistra, se sapessi dove mettermi”. Una vecchia legge dell’arte dice che più si invecchia più si tende ad omaggiare i propri maestri, in un continua ricerca/riproposizione, anche volutamente enfatizzata, delle proprie radici che rischia di essere una passeggiata stucchevole nel viale dei ricordi. Con “Pane o libertà. Per un futuro immenso repertorio”, Paolo Rossi si prende con coscienza questo rischio omaggiando e glorificando il suo maestro Enzo Jannacci, del quale racconta qualche aneddoto e canta suoi due pezzi dei quattro proposti. E nonostante la serietà del finale sia leggermente calcata, la lettera scritta dal suo mentore un giorno prima di morire riesce ad emozionare ed arrivare dritta non al cuore, intento che non perseguiva, ma dentro la bocca impegnata in una risata che, soltanto per un breve e bellissimo momento, diventa più amara. Un bicchiere di salato memento mori in una bacinella colma di inarrivabile ed intelligente escapismo.

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