La recensione di "Percoco - Il primo mostro d'Italia", di Pierluigi Ferrandini nelle sale dal 17 al 19 Aprile

Recensione a cura di Mario Turco

In questa Italia perennemente sbilanciata verso il nero, sia politico che sociale, le tragedie familiari da sempre occupano un ruolo di primo piano nella nostra agenda mediatica. Che il Male alberghi dentro la nostra casa, spazio che per ragioni geografiche (siamo uno dei Paesi europei col più alto tasso di abitazioni di proprietà), sociali (l’attaccamento tutto mediterraneo al proprio domicilio) e psicologiche è ogni volta uno shock sempre nuovo e dolente data l’importanza riservata ad uno spazio che da sempre abbiamo eletto ad ambiente sacro della nostra quotidianità. Quando un fatto di sangue tocca ambienti comuni a tutti, come la cucina o la camera da letto, o scava le facce di persone che potrebbero solcare le stesse vie del tuo quartiere, l’interesse generale raggiunge picchi voyeuristici che i mass-media sono ben lieti di assecondare e sfruttare. 


“Percoco - Il primo mostro d’Italia”, di Pierluigi Ferrandini, una produzione Altre Storie con Rai Cinema ed il contributo di Apulia Film Commission e Regione Puglia, passato nel concorso del Bif&st 2023 e nelle sale come evento speciale dal 17 al 19 Aprile, cerca di risalire, come facilmente intuibile dal sottotitolo, al primo massacro domestico della nostra storia. Tratto dal romanzo “Percoco” di Marcello Introna, edito da Mondadori, il film racconta infatti la storia di Francesco Percoco, ventiseienne rampollo della Bari bene che, dopo aver ucciso i genitori ed il fratello disabile, li nasconde all’interno di una delle tante stanze della casa borghese in cui vive anch’egli, continuando a portare avanti i suoi piccoli traffici, il suo fidanzamento con Maria e soprattutto godendosi la bella vita che il ricco patrimonio dei suoi adesso gli consente. Ferrandini, aiuto-regista di lungo corso di Sergio Rubini ed autore di diversi cortometraggi qui al suo esordio, si muove come un patologo sulla scena lasciando far esplodere la nefandezza del delitto e la convivenza con i cadaveri – ben 10 giorni, occultati sapientemente tramite dell’ovatta profumata messa nella chiusura della porta – solo nel finale, di matrice espressiva fortemente carica ed opposta sino al tono tenuto fin lì. Perché in “Percoco – Il primo mostro d’Italia” i difficili tentativi di sviare le attenzioni sempre più morbose di parenti e vicini dei genitori sono mostrati con una specie di tono che sta a metà tra il catalettico ed il sognante. È evidente in ogni caso la volontà di non fermarsi alla mera trattazione asettica degli atti del giovane dopo l’omicidio e di fare di questo violento primo caso d’eccidio domestico una specie di prisma dove riflettere di volta in volta le varie tematiche proposte. 


A partire dalla solitudine umana di Francesco, studente d’università fallito che si auto-compiace dei suoi insuccessi e del suo potenziale sprecato guardando a sé stesso come una vittima borghese del sistema. L'irresolutezza del ragazzo che ha lasciato pure partire la donna amata, una prostituta, per Napoli promettendole di raggiungerla facendosi poi irretire dalle preoccupazioni quotidiane, salvo nutrire un impossibile ritorno a tragedia già compiuta, è la chiave attraverso cui guardare tutte le sue azioni. Il suo tono mellifluo, lo sguardo dolce (bravo Giancarlo Vicari, anche se il film lo ingabbia molto), il vestiario ricercato e le colazioni sul lussuoso bar di fronte al mare nascondono il punto di rottura di una vita di piccole bugie sempre raccontate per riuscire a stare dentro il piccolo mondo dorato della Bari affermata. Se la regia di “Percoco – Il primo mostro d’Italia” riesce con bravura a nascondere i suoi limiti di budget lasciandosi andare ad alcuni vezzi estetici (gli scampoli di città riflessi nelle pozzanghere, il bordello) è il contributo di musica e montaggio ad affossare il film in certi frangenti. La prima è troppo presente e carica in tutto il film, come una specie di amico saccente che ti sottolinea in maniera ovvia ciò che sta accadendo sullo schermo (i tromboni nei momenti drammatici, note di piano allegro nei momenti leggeri etc.); il secondo avrebbe avuto bisogno di stringere su qualche scena e magari cercare di conferire dinamismo ad una recitazione anti-naturalistica ed alla lunga stancante.

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