La recensione di "Anselm", di Wim Wenders nelle sale italiane dal 30 Aprile distribuito da Lucky Red

Recensione a cura di Mario Turco

Che il documentario sia il "genere" cinematografico più importante degli ultimi anni è pacifico quasi per tutti gli addetti ai lavori. Capace di vincere recentemente anche festival come Cannes e Venezia, orientati fino a quel momento verso i lungometraggi di finzione, il cosiddetto "cinema del reale" ha fatto dell'ibridazione delle sue forme liquide il maggior punto di forza. Ma adesso che anche le piattaforme streaming ne hanno allargato i confini (spesso però con operazioni discutibili sia sul piano formale sia, si perdoni la parolaccia, di merito) resta da capire quanto esso rimanga genuinamente tensivo e quanto invece rischi di affogare sotto l'ondata di questi nuovi barbari autori/fruitori. 


Con "Anselm", di Wim Wenders nelle sale italiane dal 30 Aprile distribuito da Lucky Red dopo essere stato presentato in anteprima mondiale al 76esimo Festival di Cannes, la domanda diventa emblematica: il futuro del documentario è nella fiction? O meglio, rettificata la provocazione: il reale sullo schermo può sopravvivere solo se continua la sua fusione col cinema, defenestrando la sua capacità d'indagine a favore di una ricostruzione soggettiva? Anselm, sin dal titolo che fa leva sul nome proprio dell'artista, è infatti il racconto percettivo della carriera di uno dei più grandi artisti mondiali, il tedesco Anselm Kiefer. Dopo Buena Vista Social Club (1999), Pina (2011) e Il sale della terra (2014), Wenders torna infatti al documentario e lo fa con un, purtroppo solo a tratti, abbacinante risoluzione 6K e soprattutto formato 3D, capace con la sua profondità di campo tridimensionale di slargare i confini dell'immagine per accogliere le monumentali installazioni del pittore e scultore. I primi venti eccezionali minuti di Anselm accarezzano a più riprese, in inquadrature avvolgenti ed eleganti, le sue "donne dell'antichità" restituendo, anche tramite l'ausilio della musica classica, la straordinaria bellezza di queste installazioni acefale che puntellano una natura che sembra accoglierle con dolcezza. Scegliendo di rinunciare al voice-over e all’intervento di esperti, Wenders lascia aperte le due solo direzioni possibili di una biografia per immagini: da una parte l’unico locutore del film è lo stesso Kiefer mentre dall’altra il regista tedesco, pur rifiutando il soporifero inquadramento cronologico che spesso fa inabissare lavori similari, lavora sul vasto archivio dell’intensa attività del suo protagonista. 


Anselm non è interessato minimamente a mettere in crisi l’enorme fama del suo protagonista ed anzi si prende pure un po’ di spazio per riabilitarne cinematograficamente gli altrettanto celeberrimi punti di attrito, ovvero le accuse di aver lavorato così ambiguamente sulla memoria nazista da aver fatto il salto ed essere un apologeta delle svastiche – d’altronde le “occupazioni” di vari luoghi fatte a 24 anni col braccio alzato e la divisa militare del padre addosso erano provocazioni difficili da mandare giù per il popolo bue. Attento a far veleggiare le aperture poetiche dello stesso pittore/scultore, Wenders opera un interessante lavoro sul repertorio dando spazio scenico anche al reading fatto dallo stesso poeta Paul Celan, letto da Kiefer in un’edizione dalla splendida copertina gotica, e romanticizzando alcuni suoi spunti biografici, come nel caso della ricostruzione dei sopralluoghi effettuati su un campo innevato e i primi esperimenti di disegno effettuati da bambino. Questi innervi stilistici cozzano un po’ con la ricostruzione più mogia dei successi di Kiefer – c’era davvero bisogno di ricordare le laudazioni statunitensi con le opere esposte al MoMA? – depotenziando gli straordinari pedinamenti nel suo atelier-fabbrica, percorso in bicicletta dal pittore e giocando come un demiurgo ieratico ed allo stesso tempo inventivo con materiali comuni che nelle sue mani vengono piegati verso un gigantismo sempre significativo. Nonostante questi piccoli giri a vuoto, Anselm rimane l’opera di Wenders più ispirata degli ultimi anni – altro che la posticcia delicatezza neocoloniale di “Perfect days”! – e cartografa in maniera personale ma interessante il punto del cammino audiovisivo a cui è giunto il documentario.

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