La recensione di "Generazione Pasolini", di Marta Bulgherini in scena al Teatro Vittoria di Roma fino al 26 Maggio

Recensione a cura di Mario Turco

PPP. Una sigla che col centenario dalla nascita è diventato un tag asfissiante, in grado di catalizzare il dibattito intellettuale dentro forme mai sperimentate prima, con così tanta virulenza, di personalismo accademico ed iniziative culturali direzionate sulla magnificazione monumentale di Pier Paolo Pasolini. Un accentramento critico da cui prova a sfuggire questa gran bella sorpresa teatrale di "Generazione Pasolini" che per la drammaturgia e la regia di Marta Bulgherini è in scena al Teatro Vittoria di Roma fino al 26 Maggio. Produzione Attori & Tecnici, l'esordio nella scrittura teatrale dell'attrice romana rappresenta una provocazione ad una santificazione, ovviamente postuma verrebbe da dire come nel caso di tantissimi autori scomodi in vita, che tocca chiunque sia nel micro mondo delle relazioni interpersonali che in quello macro della vita sociale. Generazione Pasolini non intende però sollevare vetusti dibattiti polemici sull'eredità dello scrittore friulano bensì vuole muoversi secondo due direttrici ben precise che tagliano lo spettacolo in parti distinte. 


La prima parte della pièce vede la giovane Marta - interpretata dalla stessa attrice/regista - rivolgersi ai propri spettatori proponendo tutti i cascami della stand-up comedy: dal fitto autobiografismo alla messa in scena di tic comportamentali (bella la gag dell'impossibile lettura di “Petrolio” in cui Bulgherini si esibisce, forte della sua adolescenza ginnica, in una serie di piegamenti e addominali che non l'aiutano però a darle la concentrazione necessaria per abbattere lo scoglio di quelle dure parole), dalla rilettura moderna della biografia pasoliniana ("era un piccolo nerd") fino a giungere alla cifra interpretativa forse più semplice ma di sicuro impatto da opporre alle alte questioni sollevate da Pasolini nella sua vastissima produzione transmediale, ovvero la media lettura di un utente culturale del presente. "Pasolini è troppo", sbuffa infatti Marta quando prova a leggere, senza successo, un qualunque componimento de "Le ceneri di Gramsci" perché anche a distanza di cinquant'anni dalla sua morte rimane un "accollo" da esperire senza passione critica né soprattutto le coordinate intellettuali per comprenderlo. In un attacco imprevedibile a Walter Siti, che è una delle tante riuscite pungicature di una scrittura meno leggera di quanto voglia far credere, Generazione Pasolini arriva a chiedersi se abbia davvero ragione il critico e romanziere italiano a lamentarsi della perdita della complessità dell'attuale società italiana nel comprendere questo suo ingombrante totem. Così, in un capovolgimento di sceneggiatura azzardato ma riuscito, ecco che sul palco arriva a palesarsi lo stesso PPP, interpretato dal bravissimo Nicolas Zappa. Come se uscisse fuori dalla condizione fantasmatica in cui gran parte dell'establishment istituzionale l'ha ridotto oggi, in questo spettacolo lo scrittore di “Ragazzi di vita” torna ad assumere una corporeità che in parte si riallaccia al suo lascito poetico ma che per il resto, in un'operazione coraggiosa giustamente premiata come vincitrice della 14a edizione della prestigiosa Rassegna Salviamo i Talenti – Premio Attilio Corsini 2023 del Teatro Vittoria di Roma, nonché la destinazione del bando di distribuzione Per Chi Crea 2023, promosso da SIAE, viene addirittura ridotta a proiezione psicanalitica della stessa Marta che l’aiuta a fare i conti con i suoi nodi irrisolti. In questo scontro-incontro con un ideale culturale così iconico viene allora in mente lo straordinario “Provaci ancora Sam”, in cui lo schlemihl Woody Allen faceva i conti con l’impareggiabile Bogart di Casablanca. 


Sicuramente debitrice della lezione alleniana, l’autoanalisi di Generazione Pasolini – che sussume su di sé l’intera generazione dei trentenni di oggi, in un’ottica particolaristica che non scivola mai nell’autoreferenzialità – dona a questa seconda parte di spettacolo un’aura più riflessiva e che arriva perfino a capovolgere l’oggetto di studio: non più Pasolini ma una delle tante generazioni che non l’ha mai conosciuto e che probabilmente, come sottolinea la protagonista, non gli sarebbe piaciuta. Quando Pasolini aveva 52 anni, infatti, il giudizio sui ragazzi oramai alienati dalla società dei consumi che aveva espresso in uno degli scritti di “Lettere luterane” era stato lombroniasamente spietato: “Essi non hanno espressione alcuna: sono l’ambiguità fatta carne. I loro occhi sfuggono, il loro pensiero è perpetuamente altrove, hanno troppo rispetto o troppo disprezzo insieme, troppa pazienza o troppa impazienza. […] Essi non hanno nessuna luce negli occhi: i lineamenti sono lineamenti contraffatti di automi, senza che niente di personale li caratterizzi da dentro. […] Essi non hanno più la padronanza dei loro atti, si direbbe dei loro muscoli. Non sanno bene qual è la distanza tra causa ed effetto. Sono regrediti – sotto l’aspetto esteriore di una maggiore educazione scolastica e di una migliorata condizione di vita – a una rozzezza primitiva. Se da una parte parlano meglio, ossia hanno assimilato il degradante italiano medio – dall’altra sono quasi afasici: parlano vecchi dialetti incomprensibili, o addirittura tacciono, lanciando ogni tanto urli gutturali e interiezioni di carattere osceno. Non sanno sorridere o ridere. Sanno solo ghignare o sghignazzare". PPP si sbagliava, come altre volte aveva fatto, e lo spettacolo di Marta Bulgherini con la sua brillantezza ipercontemporanea ci ricorda che anche l’Olimpo è in fondo un monte scalabile.

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