La recensione di "The penitent", di Luca Barbareschi in uscita nelle sale dal 30 maggio grazie a 01 Distribution
Recensione a cura di Mario Turco
The penitent nei suoi miglior momenti - che sono pochissimi ma sono pur sempre presenti in un lungometraggio che nel finale implode in una maniera così clamorosa che solo la mancanza di controllo dell'albagia di Barbareschi poteva permettere - è infatti una riflessione dostoevskijana aggiornata ai tempi della "frociaggine", sdoganata anche da alte istituzioni religiose, quasi impensabile per una produzione di medio livello come questa. Avvalendosi ancora una volta della sceneggiatura del premio Pulitzer David Mamet, del quale il regista sin dagli anni Ottanta ha curato le trasposizioni di tantissimi suoi testi teatrali, il lungometraggio racconta del cul de sac mediatico ed esistenziale vissuto da Carlos David Hirsch (lo stesso Luca Barbareschi ). Il facoltoso psichiatra ebreo finisce infatti al centro dei riflettori de relato, dato che un suo giovane paziente si è reso responsabile di un terribile mass-shooting che ha lasciato a terra otto vittime. Il ragazzo però, ad una settimana dal massacro, chiama alla corresponsabilità proprio il suo terapeuta perché afferma di non essere stato compreso da lui quando nelle sue sedute ha rivelato di essere gay. Un prestigioso giornale cavalca la notizia rilanciando che in uno dei suoi studi Hirsch aveva scritto che "L'omosessualità è un'aberrazione", dando così modo alla comunità LGBTQ+ di assediarlo fin davanti casa. Ecco che allora che per un marchiano errore di trascrizione - sul suo saggio lo psichiatria aveva invece riflettuto che "L'omosessualità è un adattamento" (aberration/adaption in originale rimane comunque un pretesto debolissimo) - l'uomo finisce per diventare il cattivo della vorace macchina massmediatica. Il suo successivo rifiuto a testimoniare per la difesa dell'assassino precipiterà Hirsch in una spirale distruttiva che minaccia la sua stessa famiglia e la sua stessa professione.
The penitent è forse il definitivo punto d'incontro tra le ossessioni autoriali di Mamet e di Barbareschi, esacerbate qui da un dialogo a due che enfatizza le comuni debolezze teoriche senza riuscire a rilanciarne le singole positività. La lotta di un uomo contraddittorio ed allo stesso tempo integerrimo come il protagonista che viene investito dalla violenta e cieca potenza di fuoco di un'opinione pubblica acriticamente politically correct vuole infatti essere un monito scomodo verso la dittatura della maggioranza benpensante. Ma la regia di Barbareschi è così centrata sulla cifra retorica della sua scrittura da farsi una monade cinematografica refrattaria a qualunque influenza esterna. The penitent è infatti un thriller che non smette di parlarsi addosso nemmeno un minuto dei suoi quasi 120 di durata, arrivando a ripetere gli stessi concetti e perfino alcune frasi pur di ribadire il sostrato polemico del suo discorso. E se la colpa di una scelta sbagliata arriva a pesare come un macigno nel riuscito colpo di scena finale, gli altri strali scoccati da Barbareschi/Mamet peccano di un vittimismo/complottismo decisamente destrorso che spegne sul nascere qualunque moto empatico. Assegnare un potere coercitivo così smisurato ad un giornale nebulosamente anonimo o mostrare il protagonista vessato dall’inquirente afroamericano (un caso che sia la minoranza lgbtq+ che quella black non facciano bella figura?) perché di religione ebraica diventano lo specchio di idee politiche che inquinano una materia narrativa potenzialmente interessante e che avrebbe meritato uno scavo maggiore dei personaggi che non hanno la fortuna, ahiloro, di essere interpretati da Luca Barbareschi.